Saggi Storici sui Tarocchi di Andrea Vitali

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I Mattaccini - sec. XVI

Significato e loro atti

 

Andrea Vitali, gennaio 2023

 

 

Con il termine Mattaccini nel Rinascimento si indicavano diversi personaggi e situazioni: se da un lato venivano così chiamati i giullari, i buffoni (compresi i mimi burleschi) che si esibivano in pubblico facendo esercizi di abilità acrobatica e destrezza, nonché i giovani che vestiti con abiti bizzarri e maschere si divertivano nel burlare per strada le persone, con scherzi che prevedevano anche azioni manesche, per estensione, in riferimento ai lazzi dei buffoni, divenne attributo delle persone stravaganti, bizzarre, gli allegroni, i burloni per eccellenza. Inoltre, era il nome di una danza di carattere grottesco eseguita da ballerini abbigliati con vesti stravaganti che mimavano una battaglia 1 e ancora erano così chiamati i sonetti satirici dal carattere più o meno burlesco.

 

 

 Maschera del Mattaccino

 

      Fig. 1. Rame di Pietro Bertelli (c. 1571-1621) in Giovanni Grevembroch, Gli abiti de’ veneziani di quasi ogni età

con diligenza raccolti e dipinti nel secolo XVIII, Venezia, Filippi, Quattro Volumi, 1981.

 

 

Un autore cinquecentesco, nel consigliare a un nobile amico il comportamento da assumere in società, scrisse:

 

“Alla presenza degli universali, et giudiciosi intelletti potete far anco il Mattaccino, Et rappresentare ogni sorte di Mimi, che ‘l tutto vi si ammette in buona parte da essi, sì, come que’ spuda Petrarca, et que’ caca Boccaccio fanno mille risaie ne’ cantoni” 2.

 

La descrizione della danza dei Mattacini si trova, come esempio, in un testo sempre cinquecentesco dove ben dieci mattaccini la inscenarono recando molto divertimento agli astanti:

 

“...vedemmo intrar’ in sala intorno à dieci mattaccini, i quali in forma di satiri, con la coda e con le corna, e con le maschere contrafatte, davano insieme piacere e maraviglia à chi li riguardava. Entrati dunque incominciarono tra loro à ballare incerchio, e dopo questo à saltare, et urtarsi, e percuoter l’un l’altro, e far giuochi assai belli” 3.

 

Trattando dell’Olanda e in particolare dei costumi degli abitanti di Staveren nella Frisia, Lodovico Guicciardini descrisse un particolare rituale inscenato dai pescatori:

 

“Ma è cosa ridicula, & notabile il modo, che tengono quelle genti a pigliarli [i pesci]; & è questo: Travestisconsi alcuni di loro tanto stranamente, che paiono bestie, & andati verso il mare, a certe hore, che fanno, come quelli animali vengono a godersi il litto [il littorale], l’aria & la terra, se li rapresentano avanti cosi travestiti, danzando, & saltando (che inventioni truovano gl’huomini) come mattacini; al quale spettacolo quei pesci cani corrono con meraviglioso piacere & diletto, la onde i mattacini ritirandosi sempre in festa & ‘n giuoco, gli conducono a poco a poco con quel’ badalucco [trattenimento] assai dentro la terra” 4

 

Passando ai sonetti mattaccini, i più famosi furono quelli che Annibal Caro diede alle stampe nel 1558 I Mattaccini: ossieno Sonetti dieci contra Lodovico Castelvetro 5, considerato che quest’ultimo aveva più volte criticato suoi diversi componimenti come ritroviamo nel volume Apologia degli Accademici di Banchi di Roma contro M. Lodovico Castelvetro 6. Il Castelvetro rientrava per il Caro nel novero dei mattaccini in quanto considerato un buffone per le sue ridicole prese di posizione da incompetente.

 

Narrando un sogno in cui il Burchiello, con l’assenso del Petrarca, gli consigliava di usare la forma del sonetto caudato per gli argomenti comici, Caro scrisse:

 

“La ragione è – diss’ egli [lo stesso Petrarca] – perché la coda ha questa proprietà, di far ridere e di dar piacere alla gente; e però si suol mettere a’ matti, a’ buffoni, ed a certe persone piacevoli. Ti potrei dir la ragione anco di questo, ma sarìa fuor di proposito. Basta ch’avendo tu da trattar di cose ridicole, ce la déi mettere, e imitare in questo i mattaccini, che, per far meglio ridere, vanno con quella camicia pendente e con le calze aperte, facendo delle berte. La cagion poi che mi fece non appiccarla ai miei [sonetti], fu perché io non avea bisogno di mattaccini, ma di paggi modesti, dovendoli mandare a madonna Laura” 7.

 

Questi alcuni versi del Caro dove sotto l’allegoria del gufo e del castello di vetro, è denotato il Castelvetro:

 

Prime due quartine del secondo sonetto

 

Il Gufo, strusinandosi, ha già rotta

   La zucca: e’ n su la stanga spensoloni,

   Per farsi formidabile a’ pincioni;

   Schiamazza, et si dibatte, et sbuffa, et sbotta.

Arruota il becco: infoca gli occhi: aggrotta

   Le ciglia: arruffa il pelo: arma gli unghioni:

   Et raggruzzola paglie: et fa covoni,

   Incontr’ al Sole., onde ha la pelle incotta 8.

 

Prime due quartine del quarto sonetto e coda

 

Il Castello è già preso. Hor via forbotta

   La rocca: et quei suoi vetri, et quei mattoni,

   Ch’un sopra l’altro come i maccheroni,

   Sono à crusca murati, et à ricotta.

Già l’hanno i topi, et le formiche addotta

   Per fame, à darne statichi, et prigioni.

   Già si sente al bisbiglio di mosconi,

  Che v’è rumore, et disparere, et dotta.

...

              Or su Gufaccio, fu, che

Tosto ti veggia, et nudo, et tristo, et sollo.

Questo è ranno bollente, ov’ io t’ammollo 9.

 

Nei seguenti versi il Caro satireggia la lingua con cui il Castelvetro aveva risposto ai suoi Mattaccini:

 

Prima quartina del nono sonetto

 

La gran torre di vetro, ove corrotta

   La lingua si trasmuta in farfalloni,

   Portata inverso ‘l ciel da’ formiconi;

   S’era fino a le nugole condotta; 10

 

 Primi due versi dell’ottavo sonetto

 

Tu, che in lingua di gazza, & di merlotta,

Gracchi la parlaturaà i gazzoloni; 11

 

Insomma, la lingua del Castelvetro era adatta alle persone ridicole, così come per il Caro era il Castelvetro. ‘Mattaccini o barbacheppi 12’ li chiamò l’autore così come il Burchiello (si veda più sotto), il Vecellio, Pietro da Volterra (si veda più sotto) e il Brunelleschi.

 

Al di là dei mattaccini veri e propri, cioè i giullari che compivano danze acrobatiche, erano tacciati dello stesso attributo i giovani appartenenti a diverse Compagnie che per divertimento, vestiti con maschere e abiti bizzarri burlavano e disturbavano le persone che incontravano per la strada. Tipica loro azione era il lancio di uova verso sé stessi e contro ogni tipologia di persone, belle dame e vecchie donne comprese. Il contrasto suscitato da questi giovani con le persone anziane fu una costante per tutto il Cinquecento e oltre. Occorrerebbe chiedersi il motivo dell’antipatia e del disprezzo che i giovani provavano versi i vecchi, giungendo addirittura alle percosse. Probabilmente questi ultimi rappresentavano il simbolo di qualcosa a cui la gioventù del tempo, incline al divertimento e alla trasgressione, non intendeva pensare per non abbassare i toni del suo piacere, ovvero il trascorrere inesorabile del tempo. Prendendo di mira la vecchiaia e il suo modo di vivere, i giovani, più o meno inconsciamente, compivano un atto catartico liberatorio.

 

 

       mattaccini che lanciano uova        

                                             Fig. 2.  Rame di Pietro Bertelli (c.1571-1621) in Giovanni Grevembroch, cit.

 

 

                                                                                           Didascalia dell’incisione:

 

“Si proseguì lo stesso bizzarro studio ogni Anno; laonde a centinaia affollavansi i Venditori degli Ovi inebriati di odorose misture, ed altresì i Mattaccini in mascara, con la Fromba in mano, che dopo averla girata velocemente, li lanciavano contro il Compagno, o verso i Balconi occupati da Amici spettatori, e da Fanciulle innamorate, prendendo di mira spesso quale brutta Vecchia, che con più curiosità da ivi affacciavasi, il che facevano con destrezza non inferiore a quella degli antichi Frombolatori Cartaginesi, e Romani nel scoccare i sassi agli Eserciti”.

 

Altro celebre personaggio che compose versi indirizzati a giovani vestiti da mattaccini che lo disturbavano, denunciando il loro burlare le persone e soprattutto i vecchi senza alcuna remora, fu il Burchiello:

 

“Altri si vestiron da mattaccioni, et lo contrafacevano, et egli [il Burchiello] per mostrar loro quanto fosse il poco cervello de giovani, i quali vanno volentieri stratiando i vecchi, et beffandogli non s’accorgendo, che vivendo anchor loro, faranno quel da beffe da dovero, che all’hora strafacevano, fece questo Sonetto

 

Panni alla Burchia, & visi Barbichieppi

   Atti travolti, & persone scommesse,

   Paiono in tresca come genti beffe

   A guisa di virtù si rendon ciechi.

Ahi arte smemorata che pur rechi

   Humana proprietà; ma chi t’elesse

   Non altro ch’ignoranza quivi resse

   Cercando per lo ver, con gli occhi biechi.

Natura pazza, scaglia pazzi effetti

   Per che hanno a somigliar le lor cagioni,

   Onde convien che così largo getti.

Benche ignoranza non merta sermone

   Se taciti pensieri, fussin piu retti

   Darian conforto a chi al voler s’oppone” 13.

 

Per il Vecellio, l’origine delle maschere dei Mattaccini o Barbachiepi deriva da un’usanza di diverse compagnie di giovani veneziani che, ridicolizzando i vecchi che si inserivano fra loro in occasione dei balli di Carnevale, venivano da questi allontanati a suon di beffe e percosse.

 

“S'è detto, che nelle feste, che faceva la gioventù di quei tempi, si costumava il ballare: onde quei vecchi, che non havevano anchora perduto affatto il gusto, et la memoria de' piaceri goduti in gioventù, andavano à veder quelle feste, et quei balli. Ne' quali bene spesso, vedendo i modi di quell’età diversi da quegli della loro, quasi disprezzandogli, et riprendendogli, desiderosi di mostrar loro le maniere antiche come più belle, et più vaghe; gettavano giù la vesta, et così in giubbone, mentre, che prosontuosamente volevano insegnare alla gioventù (come tutti sono sprezzatori dell'altrui, et amatori delle proprie usanze) erano da quella scherniti, et fatti à suon di calci uscir di ballo. Da questa verità hebbe poi origine la fintione delle maschere, che si chiamano Barbachiepi, ò Mattaccini, che rappresentano gli atti, & le percosse, che facevano, et pativano que' galanti vecchi: la leggierezza de’ quali è fama, che ci lasciasse questo trattenimento di non poco gusto ne gli spettacoli del Carnevale” 14.

 

Riguardo l’abito della fig. 3 il Vecellio scrive: “Quest’Habito hebbe forse la mira, ò volle alludere la famosa Compagnia, che gli anni à dietro unita con tanta magnificenza di spese, et di feste, si chiamò della Calza” 15. Tutti i giovani invero portavano calze con i colori della propria Compagnia, così come da Vecellio:

 

“Ma perche in quei tempi s’usavano alcune compagnie di giovani, che s’essercitavano nel ballare, nello schernire, et in altri essercitij del corpo, ciascuno portava le calze, e ‘l giubbone di quei colori, ch’erano proprij della sua compagnia” 16.

 

 

Abito  di gioventù

 

Fig. 3. Gioventù Antica, incisione da Cesare Vecellio,

Degli Habiti Antichi, et Moderni di Diverse Parti del Mondo,

Venezia, 1590

 

 

Se qualche lettore di una certa età si scandalizzasse nel vedere oggi i jeans strappati o con buchi all’altezza delle ginocchia, sappia che si tratta di una moda che risale al Cinquecento. Quindi nulla di nuovo sotto il sole, come apprendiamo da una commedia, dove, in occasione di un dialogo fra un vecchio e un giovane, il primo rimpiange i tempi della sua gioventù quando i giovani indossavano calze intonse contro la moda moderna di portarle tutte strappate:

 

Ruberto. Le calze intere cosi pulite, era una bellezze à vederle. Hoggidì sono intorno à frapparle, tagliuzzarle, et gettar via la metà della spesa: A mio tempo li giovani il Lucco 17 con le calze intere, et in farsetto mostravano una vita da Signori.

Spinello. Da mattaccini più tosto, che gli mancava solamente la camicia fuor dalle calze” 18.

 

Un autore poco ricordato fra coloro che scrissero sonetti sui Mattacini, fu M. Piero da Volterra, Priore in San Lorenzo a Firenze. Il suo Canto de’ Mattacini più d’ogni altro si pone come importante fonte per conoscere le loro azioni e il loro pensiero. Considerata la facile lettura, non riteniamo necessario alcun commento.

 

 

Di M. Piero da Volterra,

Canto de’ Mattaccini

 

 

MAttaccin tutti noi siamo,

   Che correndo per piacere;

   Vigliam farvi hoggi vedere,

   Tutti i Giuochi, che facciamo.

Nostro Giuoco, è l'atteggiare

   Tutta quanta la persona:

   Non puo far mai cosa buona,

   Chi non sa destro giucaee:

   Sotto, e sopra ben menare,

   Con trar calci, e dar recchioni;

   Hor rovescio, e hor bocconi,

   Ne mai fermo si dee stare.

Ogni saggio e ben discreto

   Burbacchio, ò Mattaccino;

   Volta il viso, e fa l’inchino,

   Da dinanzi, e salta in dretto:

   Poi ne va pianetto, e chetto,

   Squadernandoti le Chiappe;

   Che li fanno lappe, lappe,

   Perche da contr'adivieto.

Noi siam destri come Gatti

   Per saltare in ogni loco;

   Basta sol grapparsi un poco,

   Tanto siam lesti, e adatti,

   Chi ci vede, ci tien matti,

   Ma sappiam quel, che facciamo;

   Spesso dentro, e fuori entriamo,

   Sol per fare i nostri fatti.

Chi vuol far, quel si conviene,

   Non bisogna sia infingardo;

   Ma forzoso, e ben gagliardo;

   Habbi nerbo, e buone schiene:

   Solo i Giovani fan bene,

   Perche egli han la carne pronta

   Un, che vecchio, adagio monta,

   Con angoscia, e molte pene.

Quand'egli è il paese asciutto,

   Noi montiam senza fatica;

   Perch’ habbiam la gente amica,

   Che ci lascia entrar per tutto:

   Quando il tempo è molle, ò brutto,

   Come spesso avvenir suole,

   Monti pur chi montar vuole

   Che egli è sporco, e senza frutto.

Pur si trova qualche ardito,

   Che non bada al tristo tempo;

   Ma sarria per ogni tempo,

   Come sciocco, e scimunito:

   Quest' certo, è mostro à dito,

   Perche cade spesso, spesso,

   E si trova in qualche cesso

   E da gli altri, è poi schernito.

Del Liuto al tempo andiamo,

   Col pognial, culate, e stiaffi;

   Hor con pizzichi, hor con graffi,

   Et in terra un distendiamo:

   E le stesso ancor tiriamo,

   E faccianlo rinvenire;

   Stropicciando risentire

   Ogni membro gli facciamo 19.

 

Se abbiamo scritto sui Mattaccini è per evidenziare la distanza di questi dal Matto dei tarocchi. Anche se i primi vennero considerati “matti grandi” 20, non erano colpevolizzati dalla Chiesa d’essere non credenti, a differenza del Matto dei tarocchi, ovvero l’Insipiens che non credeva in Dio 21. In un nostro precedente intervento abbiamo narrato di un personaggio che in occasione di un suo viaggio in Marocco aveva scritto a un amico dicendogli che gli avrebbe portato un ‘Tarocco in guisa di Mattaccino’ 22. Tale espressione non significa altro che l’abito indossato dal Matto, così come raffigurato nella carta, era uno dei tanti con cui si vestivano i mattaccini. Come abbiamo visto, anche se questi erano considerati essere matti (ancora oggi lo affermeremo nei confronti di persone che assumessero tali comportamenti), si trattava tutto sommato, e stiamo parlando dei Mattaccini descritti da Piero da Volterra, da un lato di una gioventù scanzonata con atteggiamenti liberatori i cui prodromi potremmo individuare nella medievale Asinaria Festa o Missa Stultorum (Messa dei Folli) 23 e dall’altro di persone il cui lavoro - far divertire il pubblico con acrobazie ed esercizi di destrezza - permetteva loro di procurarsi il pane per la sopravvivenza.  

 

Note

 

1. Tomaso Garzoni così scrive: “Oggidì con gran vergogna del Christianesimo pieno di vanità, et di pazzia, si contende quegli antichi nel numero delle saltationi, et de’ balli, che Chirampino istesso ballarin famoso non gli saprebbe numerare: et poco poco sono le danze, le moresche, il mattacino, il passamezo, il saltarello, la gagliarda...”. In La Piazza Universale di tutte le Professioni del Mondo, In Venetia, Appresso Roberto Meietti, MDXCIX.  [1599]. De’ Saltatori, e Ballarini, e di tutte le sorti di tripudianti, & de’ cursori. Disc. XLV. pp. 451-452.

2. Delle Lettere del Signor Gioseppe Pallavicino da Varrano, Libri Tre, In Venetia, Appresso Francesco Rampazetto, s.d. Al Signor Nicol Sedacciari, c. 116r.

3. Il Convito di M. Gio. Battista Modio overo del peso della Moglie. Dove ragionando si conchiude, che non puo la Donna dishonesta far vergogna all’huomo,In Milano, Appresso di Giovann’Antonio de gli Antonij, M.D.LVIII. [1558], p. 38.

4. Descrittione dei M. Lodovico Guicciardini Patrizio Fiorentino, di tutti i Paesi Bassi, altrimenti detti Germania Inferiore, In Anversa, Appresso Christofano Plantino, Stampatore Regio, M.D.L.XXXI. [1581], p. 284.

5. Leopardi, basandosi sui sonetti del Caro compose nel 1817 i Sonetti in persona di Ser Pecora fiorentino beccaio, nome che il poeta desunse dalla Cronica di Dino Compagni, il quale menzionò un beccaio soprannominato Pecora. 

6. Apologia degli Accademici di Banchi di Roma contro M. Lodovico Castelvetro da Modena in forma di uno spaccio di maestro pasquino con alcune operette del Predella, del Buratto di Ser Fedocco In difesa della canzone del Commendatore Annibal Caro appartenenti tutte all’uso della lingua Toscana e al vero modo di poetare, Firenze, Nella Stamperia Magheri, MDCCCXIX [1819].

7. Carla Mercato (a cura), Lessico Colto, Lessico Popolare, Alessandria, Edizione dell’Orso, 2009, p. 109.

8.  Rime del Commendatore Annibale Caro, In Venetia, Appresso Aldo Manutio, MDLXIX. [1569]. Sonetti in burla detti mattaccini, p. 91

9. Ibidem, p. 93

10.Ibidem, p.96.

11. Ibidem, p.91.

12. “Voce ant[ica]. Detto a uomo per ingiuria” così in Giuseppe Boerio, Dizionario del dialetto veneziano, Venezia, Cecchini, 1856, p. 62.

13. Le Rime del Burchiello Comentate dal Doni..., Volume IV, In Venetia, [Appresso F. Rampazetto], MDLXVI. [1566], pp. 41-42

14Degli Habiti Antichi, et Moderni di Diverse Parti del Mondo, Libri Due, Fatti da Cesare Vecellio, & con Discorsi da Lui dichiarati, In Venetia, Presso Damian Zenaro, M.D.XC. [1590]. Libro Primo, p. 66

15. Nel 1979 per opera dell’antiquario Avv. Paolo Zancopè fu ricostituita la Compagnia de Calza con la finalità di promuovere la rinascita del Carnevale di Venezia così come nell’antico divenendone l’Ente Promotore.  

16. Degli Habiti Antichi, cit. p. 66.

17. Il Lucco era una sopravveste maschile del sec. XIV, lunga fino a terra, chiusa al collo con ganci, portata sciolta o stretta alla cintura, inizialmente riservata ai nobili, ai magistrati e agli intellettuali e più tardi estesa a tutti i cittadini.

18Il Lanzi. Comedia di M. Francesco Mercati, In Fiorenza, Per Valente Panizij, & Marco Peri, MDLXVI. [1566]. Scena Sesta – Atto Secondo, cc. 18r-v.

19. [Anton Francesco Grazzini detto il Lasca], Tutti i Trionfi, Carri, Mascheaate ò canti Carnascialeschi andati per Firenze, dal tempo del Magnifico Lorenzo vecchio de Medici; quando egli hebbero prima cominciamento, per infino a questo anno presente 1559, In Fiorenza, [Lorenzo Torrentino], MDLVIIII. [1559], pp. 194-196.

20. Cfr. De gli Ufizii, e Costumi de’ Giovani, Libri IIII, d’Orazio Lombardelli Senese, Accademico Humoroso, In Fiorenza, Appresso Giorgio Marescotti, 1579. Libro Quarto, p. 159.

21. Si veda Il Matto / Il Folle.

22. Si veda Un Tarocco dal Marocco in guisa di Mattaccino.

23. Si veda Officium Lusorum.

 

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