Saggi Storici sui Tarocchi di Andrea Vitali

Saggi dei Soci e Saggi Ospiti

I Tarocchi Marsigliesi

Più popolari che nazionali

 

di Giuseppe M. S. Ierace

 

Perché al giorno d’oggi qualcuno dovrebbe interessarsi ai Tarocchi Marsigliesi che hanno una fattura così antica?

 

Studiosi come l’estone-russo Valentin Arnoldevitch Tomberg (1900-1973), lo svizzero Oswald Wirth (1860-1943), o il francese Paul Marteau (1885-1966), si sono concentrati soprattutto sui tarocchi marsigliesi, che si differenziano da tutti quanti gli altri disegnati da esoteristi del passato, più o meno remoto, oltre che per l’originalità estetica, la stimolante immediatezza simbolica, e per rappresentare un tipico strumento narrativo, anche per un’altra caratteristica sostanziale di questa sorta di Mutus Liber, la presenza d’una struttura cifrata, in un insieme di codici appositamente creati da una combinazione di simboli, numeri, colori e nomi di carte, che ne vanno a costituire l’enigmatica matrice ermetica.

 

Variazioni cromatiche

 

Ogni cultura, religione, tradizione, ha proposto una propria versione del simbolismo cromatico, senza mai trascurare però quel comune sfondo connaturale all’evidente lotta tra luminosità e penombra che rende vitale il colore. Tanta vigoria, infatti, nasce dalla modificazione che diverse varietà di semioscurità generano impattandosi con lo scintillio della luce.

 

La differente densità di buio trasforma il riverbero nella gamma di sfumature recepite dal nostro occhio. Partendo dalla purezza superiore delle tonalità del bianco per giungere all’indaco e violetto, in cui predomina il crepuscolo, attraverso quella particolare condizione d’equilibrio, suscitata dalle gradazioni dei gialli e dei verdi, si può ripercorrere a ritroso il tragitto che dall’ignoto e dalla confusione porta alla piena conoscenza e ricettività. Per ciascun colore si dovrà percorrere il cammino inverso dalla totalità all’unità, al fine d’inquadrarlo poi nei semplici e singoli dettagli in grado di coglierne integrità ed essenza.

 

Il cane del cielo, o la stella del Cane

 

Nell’Atout del Matto, per esempio, il cane, che guarda nella stessa direzione del personaggio a cui sembra azzannare brandelli di vestiario, viene tradizionalmente tinteggiato in blu chiaro allo scopo d’indicare un’allegoria celeste, tipo una costellazione, alla quale è rivolto lo sguardo del protagonista della raffigurazione. L’animale allora più che assaltare il malcapitato si sforza d’elevarsi sulle zampe posteriori, quasi imitandone la posa, eppure nell’intenzione di frenarne la tendenza alla distrazione.

 

Un botolo dello stesso colore latra alla luna, nel XVIII arcano, come a confermarne il rapporto con gli astri, e con una stella in particolare, la più splendente di tutta la galassia. I due canidi dei Tarocchi hanno uno stretto rapporto con la costellazione di Orione, il mitico cacciatore seguito da due segugi, la stella più brillante del cui raggruppamento si lega alla canicola, ovvero cane del cielo, o stella Cane. Le cosmogonie di diverse tradizioni, tra cui il buddismo esoterico, ci riferiscono d’una via privilegiata, definita "Ritorno verso Sirio", che gli esseri umani, dopo la loro serie di reincarnazioni, dovranno compiere proprio per ricongiungersi infine a questo astro denominato "ardente" (Σείριος, Seirios).

 

Il gambero de “La Luna” (XVIII Atout) sostituisce il Cancro dello zodiaco, in cui tradizione vuole che avvenga appunto questa trasmigrazione.

 

Implicazioni numerologiche

 

Di metempsicosi, assimilazione finale delle anime individuali al Tutto, armonia delle sfere celesti, e spiegazione della struttura dell’universo in termini matematici parlò tra i primi Pitagora, sottolineando l’importanza della Tetraktýs (τετρακτύς), su base quaternaria. La forma geometrica del quadrato, unita al triangolo, produce un settenario, elemento chiave per la suddivisione dei sei lati di un dado. La somma di quelle facce tra loro in opposizione fornisce sempre lo stesso numero, e giusto tre sette.

 

I tre settenari

 

I tre settenari degli Arcani maggiori corrispondono alla dimensione fisica (dal Bagatto al Carro), a quella delle idee (dalla Giustizia alla Temperanza), e dell’evoluzione interiore (dal Diavolo al XXI Trionfo), che contrassegnano le tre tappe fondamentali del viaggio che deve intraprendere l’anima/il Matto (0) per giungere, almeno temporaneamente, a destinazione, nel compimento della perfettibilità del Mondo, in cui le quattro figure agli angoli riprendono il significato dei quattro elementi posti sul tavolo del Bagatto (I), il copricapo del quale ritorna  nell’arcano della Forza (XI, come nel Cavaliere di Bastoni…), cosicché il numero uno (I) risulta tre volte presente poiché collegato sia all’undici (XI) che al ventuno (XXI).

 

Nel XXI, le gambe incrociate del personaggio centrale, per lo più femminile, se non androgino, ci riconducono a quelle dell’Appeso (XII), soggetto però maschile e capovolto a testa in giù, nel sottolineare la complementarietà dei due Trionfi, evidenziata dalla numerazione araba speculare di 21 e 12. L’Aquila (Fenice) del Mondo (XXI, 21), nel rappresentare il seme di Spade (come la Giustizia), la vediamo impressa sullo scudo dell’Imperatrice III (= 2+1) e, con lo sguardo rivolto in senso opposto, pure su quello della Lama successiva, legata al seme di Denari [Come il Toro (Terra) del Mondo e l’intero Onore XXI, nel suo complesso, mentre il Leone (Fuoco) sta per Bastoni e l’Angelo (Acqua) per Coppe]. Gli arti inferiori accavallati dell’Imperatore (IIII, 4), ripropongono sempre il 4 del personaggio del Mondo, mentre la medesima cifra risulta capovolta nell’Appeso (XII, 12), maggiormente affine ai Bastoni (alla stregua de la Forza). Il seme di Coppe verrebbe evocato dalle anfore, mostrate nell’atto di compiere un travaso, nella carta della Temperanza (XIIII, 7+7), e invece svuotate, nella Stella (XVII, 17), che di astri più generosamente ne contiene otto (1+7).

 

Il 4 e il X

 

L’altra suddivisione degli Onori in due decine ci ripresenta il ventaglio delle carte numerali (Dieci) dei quattro semi, comprendenti anche le quattro figure di corte (fante, cavaliere, regina, re), dove le corrispondenze s’esprimono secondo tragitti supplementari. Nel primo caso, lo snodo dell’inversione del percorso sarebbe rappresentato proprio dalla Ruota della Fortuna (appunto X). Sempre in questo senso d’ineluttabile irreversibilità, la sequenza della numerazione romana ne sottolinea l’incontrastata e inarrestabile inconvertibilità, privilegiando la progressione dei segni, con i singoli elementi della successione lineare, alla consueta sottrazione di uno (I) dal simbolo letterario successivo (V, X; tipo IIII, invece di IV, VIIII, al posto di IX, XVIIII diversamente da XIX), dove la giuntura risulta articolata dal numero delle barrette verticali, e sempre quattro.

 

Simbolismo esoterico di Wirth

 

«Ricondotti alla sobrietà degli ideogrammi, i ventidue arcani possono costituire un alfabeto simbolico facilmente rintracciabile su delle carte numerate».

 

Oswald Wirth li avrebbe riassunti nella maniera più semplice, rimandando l’esoterismo de Le Bateleur all’Oudjat di Horus, apotropaica insegna di protezione contro il malocchio, e pure di comprensione e intelligenza, collegate alla terza Séphirah (Binah) dell’albero cabalistico, laddove la corona di Kether è stata rimpiazzata dall’abituale lemniscata del cappello sul capo del personaggio del primo arcano. 

 

A caratterizzare La Papesse è il geroglifico egizio che significa vita, Ânkh, o croce ansata, divenuta simbolo di Venere, e ricordata dalle chiavi prive della parte complementare dell’ingaggio atto a far scattare il perno della serratura e che perciò è da intendere come passe-partout utilizzabile soltanto da chi è iniziato a servirsene.

 

L'Impératrice mostra il simbolo dell'elemento acqua, un triangolo rivolto verso il basso in cui sembra immerso il cerchio sormontato da una croce, ed emblema della terra (così come dell'antimonio, in alchimia); un’isola, in fondo, che rivela la sua parte visibile (consapevole) nel mascherare quella invisibile, inconsapevole. «Il diametro orizzontale che divide il cerchio diventa un firmamento separatore delle acque superiori dalle inferiori», alludendo all’icona alchemica del sale, il cerchio (dell'io) diviso in due emicicli (uno conscio e l’altro inconscio), che sta «alla base di tutto ciò che prende forma. Ogni cosa è generata attraverso di esso, grazie all'azione combinata di zolfo e mercurio».

 

Ne L'Empereur il Triangolo rivolge l’apice verso l'alto, mentre alla sua base è sospesa una croce, per formare il segno rappresentativo dello zolfo alchemico, onde raffigurarvi il “fuoco imprigionato nel nucleo di ogni essere”. «Questo ardore vitale, manifestato dall'interno all'esterno con i fenomeni di sviluppo e crescita, è in realtà il principio organizzatore d’ogni organismo». Nell’interpretazione trinitaria, che dà origine anche alle speculazioni degli alchimisti, lo zolfo rappresenta lo spirito, il sale il corpo e il mercurio l'anima. Nell'immagine tradizionale del quarto arcano, i tre lati del triangolo possono essere sostituiti da una formazione a tre petali in cui a volte termina lo scettro, una specie di giglio [che nell’araldica tarologica andrebbe talora a soppiantare la figura dell’aquila/fenice sul due di Coppe degli Arcani minori (come avviene nel mazzo di Claude Burdel, che illustra il libro di Anna Maria Morsucci e Antonella Aloi, “I Tarocchi marsigliesi per tutti”, Lo Scarabeo, Torino 2017)]. Altrimenti, sul globo terrestre del bastone di comando, si situa la croce, a cui alludono pure le gambe accavallate del protagonista coronato.

 

Sull’Atout denominato Le Pape, il pentagramma con il vertice rivolto verso l’alto (alla maniera dell'uomo vitruviano di Leonardo da Vinci) sta a dimostrare il dominio sulla materia, le quattro membra, da parte della mente, la testa alla sua sommità. Wirth attribuisce la capacità di conferire insegnamento iniziatico alla cosiddetta “stella dei saggi”, visto che «la sua morbida luminosità non abbaglia come quella del Sole o persino della Luna», ma riesce a penetrare la superficie mantenendo quell’occulta radiosità in grado di svelare, dietro l’apparenza dei sensi, la realtà intelligibile.

 

Il volo d’Alessandro

 

Certe altre figure degli Onori rimandano esplicitamente a precise icone archetipiche che inevitabilmente continuano a influenzare l’immaginario culturale.

 

Il Carro si rifà, molto verosimilmente, ai fregi (come quello bizantino del X-XIII sec., proveniente da Costantinopoli e adesso sul lato nord della Basilica di San Marco a Venezia), che trattano il tema dell'ascensione al cielo di Alessandro Magno, menzionata nella Historia de preliis Alexandri Magni, versione latina medievale del Romanzo di Alessandro attribuito allo Pseudo-Callistene. Assiso su una biga, il grande macedone viene trainato da due grifoni spinti a librarsi in volo all'inseguimento di esche infilzate su lance tese e da lui sostenute a braccia aperte.

 

Ereshkigal

 

Il Diavolo, invece, riprende la postura generale e gli attributi (simmetria dei gufi e degli arti, ali e grinfie d’aquila) dell’altorilievo in terracotta del II millennio a. C., appartenente alla collezione Norman Colville (al British Museum di Londra), conosciuto come “rilievo Burney “, o “regina della notte”, identificabile con la sumera Kisikil-lilla-ke dell'epopea di Ghilgameš, oppure, in relazione al mito del viaggio di quest’ultimo agli inferi, con la dea dell’oltretomba Ereshkigal, sorella di Inanna.

 

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«Perché al giorno d’oggi qualcuno dovrebbe interessarsi ai Tarocchi Marsigliesi che hanno una fattura così antica? – continuano a interrogarsi Anna Maria Morsucci e Antonella Aloi, ne “I Tarocchi marsigliesi per tutti” (Lo Scarabeo, Torino 2017) - Le loro immagini possono sembrare mediocri se paragonate alla perizia tecnica e al simbolismo più esplicito di altri mazzi; sono spesso di soli quattro colori, i volti delle figure quasi grotteschi, inoltre le carte a seme (dall’Asso fino al Dieci) al contrario delle carte dei mazzi moderni, sono assimilabili a carte da gioco. E allora: perché i Marsigliesi? Perché hanno qualità che non si trovano negli altri tipi di Tarocchi. Tanto per cominciare, il fatto che il mazzo non segua nessuno standard estetico moderno rende le immagini senza tempo, svincolandole dalle nostre aspettative culturali e sociali. Le illustrazioni sono apparentemente semplici e senza riferimenti espliciti a sistemi esoterici come la Cabala, l’Astrologia o l’Alchimia che troviamo in altri mazzi…».

 

Un’altra spiegazione potrebbe risiedere nella loro indubbia popolarità che favorirebbe quella sensazione di familiarità in grado di accostarne la simbologia senza particolari pregiudizi, lasciandoceli interpretare con maggior libertà?

 

Eppure, le suggestioni sono davvero molteplici nelle tante rivisitazioni che di questo vero e proprio canone marsigliese sono state fatte nel corso di più di due secoli.

 

Il culto della Maddalena e il semipelagianesimo cassianita

 

Forse, dietro tutti questi suggerimenti e influenze, si celerebbe l’azzardo dell’ipotesi che tale veste grafica possa farsi risalire a una rielaborazione provenzale della sapienza gnostica approdata alle Bocche del Rodano (precisamente a Ratis, successivamente Les-Saintes-Maries-de-la-Mer), insieme con il culto della Maddalena e di sua figlia Tamar Sara, per venire tramandata poi dai monaci cassianiti, seguaci del semipelagianesimo di Cassianus. Ne sarebbe originata una vera e propria scuola occulta che avrebbe maggiormente assorbito i dettami esoterici, distinguendosi pertanto da quella italica, lombarda, solo in apparenza più semplificata, ma verosimilmente separata nei contenuti, sempre ispirati, con buona presunzione, da tradizioni antecedenti a entrambe.

 

Una colonia focese

 

Basti ricordare che, come per la campana Hyélē (Velĭa in latino), la fondazione, nel sec. VI a. C., dell’antica Μασσαλία (Masalia) si deve a ecisti focesi che videro le loro sponde microasiatiche minacciate dai Lidi. Sin da subito, la regione masaliota rappresentò una sorta di porta d’accesso dall’Oriente, e, data la sua posizione geograficamente privilegiata, iniziò a ricevere condizionanti apporti da tutte le culture del Mediterraneo.

 

Provenzali, Borgognoni o Elvetici …

 

Ebbene, a disegnare e produrre arcani, onori o trionfi, in stile marsigliese non ci furono soltanto degli stampatori locali, ch’erano soliti lasciare le loro iniziali quando sul Due di Denari, quando sul Due di Coppe, come François Bourlion (1760), Joseph Fautrier (1762), François Tourcaty (1745), figlio di Jean-François, o vere e proprie dinastie tipo Conver (1760-1890) e Arnaux (1790-1829), ma persino elvetici: basti ricordare, a Solothurn, François Héri (1718), a Műmliswil, Rochus Schär (1750), a Neuchâtel, Jacques Rochias (1782), a Fribourg, Claude Burdel (1751-1850); e poi a Digione (rispettivamente nel 1709 e nel 1739) operarono Pierre e Jean-Baptiste Madenié, a Belfort (1760) Jean Pierre Laurent, a Strasburgo (1751-1803) Benoit, o Benois, e i Grimaud a Parigi (a partire dal 1748) fino alla metà del secolo scorso.

 

Tarocchi Madenié

 

Piuttosto interessante il caso dei due Madenié, in quanto gli esemplari posteriori del figlio Jean-Baptiste (1739) preservano dei dettagli trascurati, o del tutto tralasciati, dal padre Pierre (1709); il che farebbe supporre come il primo, a distanza di trent’anni, possa aver avuto a disposizione dei modelli di riferimento ben più antichi a cui ispirarsi, laddove la precedente edizione paterna, da annoverare tra le più antiche del canone relativo a quel secolo XVIII, non costituirebbe in effetti una tipologia più originale, bensì si sia limitata a ricapitolare sommariamente quanto recepito da un lascito precedente di quell’altra categoria relativa a ben due secoli innanzi. E questo ci porterebbe a concludere che l’anteriorità storica non sempre vada identificata con un’autentica peculiarità, che a sua volta non andrebbe poi confusa con eventuali aggiunte o corruzioni.

 

François Tourcaty

 

Altrettanto avvincente il campione di François Tourcaty figlio (1745), caratterizzato da qualche frattura con la versione tradizionale, sia nel senso d’un certo declino registrabile nell’iconografia, sia da evidenti alterazioni nel nominare i vari Trionfi secondo l’antica dicitura provenzale del XIV secolo, tipo “Le Chariot” anziché “Le Charior”, “Letoille” al posto di “Lestoille”, mentre conserva invece la scrittura delle U in V e delle J in I. Malgrado l’attrattiva che suscitano, le carte di François Tourcaty sembrano inoltre mancare della maggior parte dei riferimenti ermetici, anche se viene citato il simbolismo della Fenice sul II di Coppe e il IIII di Denari.

 

Rochus Schär

 

Le particolarità del mazzo di Műmliswil, come in qualche altra antica serie, le possiamo riscontrare nell’errata impugnatura da parte del Bateleur della bacchetta che sembra sfuggirgli dalle dita, nella nudità del piede appeso nel XII Trionfo, nei crescenti lunari sui seni del Diavolo, nei raggi del Sole troppo larghi e intensamente colorati, nel corno sinistro del Toro aureolato del XXI arcano che prosegue nel nimbo, inoltre i decori a bordo dei gonnellini sia dell’Imperatore sia del personaggio maschile “Lamoreux” appaiono inconsueti. Comunque, pur essendo stampato in Svizzera, o forse proprio per questo, mantiene le denominazioni originarie dell’antica dicitura provenzale del XIV secolo, tipo “Le Charior” e “Lestoille”, insieme con la maggior parte dei caratteri tipici del canone marsigliese.

 

Claude Burdel

 

Il modello friborghese del 1751 presenta le medesime particolarità delle carte di Rochus Schär. In più il piede nudo dell’Appeso è colorato di rosso, i crescenti lunari sul petto del Diavolo sono di una tonalità carnea, mentre in Rochus Schär quasi tutto il corpo era ceruleo. Claude Burdel lasciò per esteso la sua firma sul 2 di denari, contrassegnando con le proprie iniziali il II di Coppe e il VII arcano, “Lecharior”. Anche qui, come un po’ in tutti gli altri esemplari, le scritte compaiono in un francese privo di accentazione e spesso non proprio corretto. Le figure intere, recanti la denominazione e la numerazione romana corrispondono a quelle dei trionfi, tranne la XIII carta che resta anonima. Abbigliamento e vestiario dei personaggi accentuano la stilizzazione dei prototipi rinascimentali.

 

Jacques Rochias

 

La specificità del Jacques Rochias è determinata dall’inversione nell’orientamento di alcune immagini: La Mort segue il verso dei più antichi mazzi italiani e guarda a sinistra, mentre La Rou de Fortune e Le Soleil sono realmente rigirati su se stessi e rivoltati di lato in senso speculare.

 

Jacques Viéville

 

Gli storici ritengono che le carte stampate a Parigi da Jacques Viéville, nella metà del XVII secolo, assieme a quelle di Jean Noblet, costituiscano una sorta d’anello di congiunzione tra le lombarde e le marsigliesi. Il mazzo Noblet sembrerebbe ricopiare il foglio Cary dei Tarocchi milanesi del primo cinquecento (Visconti-Sforza), mentre i fabbricanti di carte parigini furono più attratti dalle illustrazioni delle Lame dell'Italia nord-orientale, veneziane o ferraresi, simili per struttura alle lombarde, ma differenti nello stile; esse in verità risentirono pure della conoscenza delle carte spagnole e dei mazzi venatori dei paesi germanofoni. Il cosiddetto “tarocco di Carlo VI” dimostrerebbe che lo stile ferrarese potrebbe aver raggiunto Parigi ancor prima che quello milanese Lione e Marsiglia. Eppure, molti dei particolari che nelle illustrazioni di Viéville differiscono da quelli delle francesi meridionali, furono conservati nello stile fiammingo di Gent e Bruxelles. Il tarocco di Parigi si limitava poi a riportare il solo numero progressivo, inserendo  quasi tutti i nomi come in una specie di invocazione, sia sull'asso di Denari che sul 2 di Coppe, a volte senza rispettarne l’ordine: Yustice è VII, per esempio, Force IX, Vielart XI, come a Ferrara; Baga richiama l’italiano Bagatto, la Foudre sostituisce la denominazione meridionale di la Maison Dieu, e Trompe le Jugement. Per giunta, a eccezione dell’Imperatore, tutti i soggetti del mazzo parigino sono rivolti in direzione opposta al marsigliese tradizionale. Si suppone quindi che tale inversione possa derivare dall’aver ricalcato sulla matrice il modello in positivo delle illustrazioni d’un mazzo preesistente. La corruzione grafica dell'alto schienale d’un trono alle spalle dell'allegoria della Giustizia fa spuntare a tale personaggio un paio d’ali. Ali che invece non possiede più la Temperanza, la quale in mano tiene uno scettro, accanto alla didascalia specularmente rivoltata “Sol Fama”. Il Diavolo è disegnato di profilo come nelle carte bolognesi. La saetta (XVI) mostra un uomo intento a ripararsi sotto un albero da uno scroscio di pioggia. E i successivi soggetti cosmologici (Stella, Luna, Sole) dimostrano maggiore compatibilità con il tarocchino di Bologna, dallo stile più vicino al ferrarese. Il tema della donna col fuso probabilmente venne fatto arretrare d’una posizione per rispettare l'antica relazione simbolica fra la Luna e la natura femminile. Infatti, in una carta del tarocco Leber, proveniente dall’Italia settentrionale del XVI secolo (ora nella Biblioteca Municipale di Rouen), i cui trionfi avevano motti in latino, “Inclitum Sydus” corrisponde a Venere, emergente dalla schiuma del mare, sotto una stella a otto vertici, con in mano una lunga freccia dalla punta rivolta verso il basso, mentre in alto, alla sua estremità posteriore, la tacca, o cocca, mostra in bella vista quelle penne di volatile di cui è costituita, la cui forma potrebbe approssimativamente essere stata scambiata per il contorto ammasso di fibre da filare.

 

Tarocchi di Jean Dodal e di Jean-Pierre Payen

 

Da un punto di vista grafico, i Tarocchi di Jean Dodal (Lione, 1701-1715) e quelli di Jean-Pierre Payen (Avignone, 1713) sono quasi sovrapponibili, tanto da indurre a ritenere molto più rilevante un’eventuale distinzione semmai tra cartai, incisori, produttori, o editori e mercanti di immagini. Qui gli incisori non mostrano d’avere un discreto livello di padronanza o di talento grafico e neppure un tocco sicuro nel disegno. In un caso il lavoro appare meno sofisticato, nell’altro più diretto e popolare. Pur essendo originario di Marsiglia, Jean-Pierre Payen si andò a stabilire nella vicina Avignone, la città dei Papi. Payen sembra consapevole del significato profondo delle immagini, a cui però conferisce maggior freschezza e infantile candore in una linea meno marcata. Un po’ si allontana comunque dal canone tradizionale, per permettersi dei tratti più liberi, con ridondanza di addobbi floreali. Nonostante questo curioso effetto stilistico, avendo ricopiato da figure decisamente più antiche, ne conserva sicuramente delle vestigia. Dodal non indulge in allusioni sottili, pur avendo ricevuto insegnamenti classici ed essendo pienamente a conoscenza di quanto trasmessogli. Tra i dettagli significativi da rilevare: l’angelo del VI Arcano è bendato, la Temperanza a petto scoperto, la giovinetta nel XVII Atout sembra incinta, mentre cieco uno dei bambini nel XVIIII trionfo. La superstizione impone che il XIII non venga denominato e la costumatezza riveste il fondo schiena del Matto. Il Diavolo conserva degli occhi sulle ginocchia (le cosiddette “testoline” dei Gesuiti) e una tradizionale seconda faccia sulla pancia, che rammenta quell’istruzione occulta sul “senso” della pietra dei costruttori. A seconda della forza d’attrazione o repulsione, se ne deduce l’orientamento intrinseco che va comunque rispettato allo scopo di custodire la sacralità dell’edificio da portare a compimento.

 

Il mazzo di Jean Noblet

 

La più rimarchevole originalità del tarocco di Jean Noblet (seconda metà del XVII sec.) è riposta nelle sue dimensioni insolitamente ridotte. È però anche il più vecchio mazzo conosciuto della tradizione cosiddetta di "Marsiglia", che coraggiosamente osa identificare l'Arcano XIII, solitamente lasciato senza alcuna didascalia, chiamandolo impudentemente per nome. Forse, più di Dodal, Noblet appartiene a un'epoca in cui la conoscenza tradizionale veniva ancora trasmessa iniziaticamente dal maestro incisore al suo apprendista. E pertanto appare più vicino alla fonte di tutti quelli che lo avrebbero seguìto in séguito. Nella grafica dei suoi arcani salta subito agli occhi una diversa manualità, che induce a pensare come alcune immagini, tipo il Diavolo, il Mondo e la Ruota della fortuna, siano state portate a termine o addirittura ridisegnate per intero da un discepolo coscienzioso per quanto riguarda i dettagli, ma privo del necessario talento artistico.

 

I Tarocchi di Lequart, prodotti a Parigi e firmati Arnoult (1748) si fanno principalmente apprezzare per la purezza e correttezza geometrica.

 

La serie di Besançon

 

Alla serie di Besançon, in cui la maggior parte delle carte s’avvicina molto al canone marsigliese, differendo principalmente negli onori del Papa e della Papessa, sostituiti da Jupiter e Junon, appartengono le carte di Renaulte del suo successore J. Blanche, nonché quelle elvetiche di J. B. Benois, che si discostano dagli analoghi europei del XVIII secolo pure nell'asso di Coppe, rappresentato da un vaso panciuto dal profilo tondeggiante, a forma di terrina, di gusto squisitamente barocco, risentendo probabilmente dell'influenza dello stile spagnolo, mentre altrove si disegnava solitamente una sorta di "tabernacolo" decorato da guglie appuntite, dalle linee marcatamente gotiche.

 

I Carrajat, prodotti a Chamberry, s’accostano di più al canone bisontino, pur conservando tuttavia un Papa e una Papessa. Al contrario, le carte stampate a Belfort da Jean-Pierre Laurent, per stile, rimandano alle marsigliesi, pur sostituendo Papa e Papessa con Jupiter e Junon.

 

Un primitivo mazzo di questo genere, databile con certezza, risale al 1746, e fu inciso da Pierre Isnard per conto di Nicolas Laudier. La data riportata sul Due di Denari, indicante il 1672, designerebbe quello di François Chosson il più remoto e classico del gruppo provenzale, mentre molto verosimilmente questo mastro cartaio sarebbe stato attivo a Marsiglia solo tra il 1734 e il 1756.

 

La singolarità del gioco di Suzanne Bernardin consiste quasi esclusivamente nel fatto che la firma del mastro cartaio era femminile. Allora, forse, il più riconosciuto quale magistrale tra gli antichi mazzi di Marsiglia resta quello inciso nel 1760 da Nicolas Conver. Nonostante in esso siano evidenti degli eccessi (soprattutto nella colorazione di un blu troppo carico), e delle difformità (come ne La Lune e ne La Force, rispetto a Chosson, Héri e Madenié, o nelle denominazioni delle lame che risentono di una sorta di normalizzazione tipica dell’illuminismo del XVIII secolo, con le I e le V sostituite rispettivamente da J e da U), le sue codificazioni numerologiche, per alcuni autori, formano un insieme pressoché inappuntabile, e, anche se molti simboli alchemici non si riesce a riconoscerli, quelli rimasti evidenti appaiono sufficienti a ricostruirne le corrispondenze occulte.

 

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Nell’illustrare la cosmologia universale, il messaggio d’una filosofia perenne, tradotta nell’antico "Gay Sçavoir" provenzale, recupera quel codice dell’arte sacra, impregnata dalla geometria del fiore della vita e del cubo di Metraton, meticolosamente rispettata dalla consuetudine degli antichi costruttori di ponti tra le diverse sponde dell’esistenza.

 

Le varie interpretazioni dell’intera teoria dei trionfi mostra la propria versatilità a cominciare dalle derivazioni etimologiche del termine Tarocco: tarot si è ricondotto a radici egizie, “tar” e “ros”, nel senso di “via reale”; a quelle indo-tatare “Tan-” e “Tara”, ossia zodiaco; all’ebraica Tora, legge; al cinese Tao; al sanscrito Tat, tutto; oppure Tar-o, stella fissa; nonché al latino anagrammatico Orat, parla, o Rota, ruota, che, nel confermare una precisa chiave di lettura nel X arcano, imparenta l’enigma di queste carte a quello palindromico del Sator/Rotas.

 

A fianco delle interpretazioni più vocate ad aritmomanzia, astrologia e cabala, negli arcani marsigliesi, la presenza di denominazioni come il Giudizio, con l’angelo che suonerà la tromba per resuscitare i cadaveri sparsi sul campo dalla falce del XIII trionfo, insieme con il tetramorfo de il Mondo, l’Appeso, il Diavolo, e poi Papa, Imperatrice, Giustizia, Temperanza, Forza, tendono piuttosto a restituire la formula evangelica d’un’apocalissi (apokálypsis, ἀποκάλυψις), intesa nell’originario significato di rivelazione d’un’eterna risorgenza.

 

L’Araba Fenice

 

L’archetipo della Fenice, quando non viene confuso con un elemento araldico tipo giglio, viene ricordato esplicitamente sugli arcani minori del II di Coppe e del IIII di Denari. Nella prima carta il favoloso volatile d’Arabia lo si vedrebbe morire nell’incandescenza del suo stesso piedistallo-Athanòr, sorretto da due angeli, di cui uno cieco nell’alludere all’ombra dell’inconscio da illuminare, alla perdita dell’illusione o all’alchemica opera al nero, Nigredo, che costituirà la cenere nella quale trovare la forza di risorgere.

 

Nella medesima carta, ma del seme di Cuori dei comuni mazzi francesi, dove avviene l’unione (Conjunctio) dei due opposti (Sole e Luna), sarebbe l’energia della Rubedo a trasformare l’essenza dello spirito vitale con l’amore che si rinnova nell’evolversi. Nel IIII di Denari, la Fenice ricompare in un blasone, come nel III (Imperatrice) e nel IIII  (Imperatore) degli Arcani maggiori. Questo numero quattro corrisponde infatti emblematicamente al seme di Denari, per ribadire l’importanza del corpo nell’esperienza fisica dell’anima, ai fini d’un’alchemica spiritualizzazione della “prima materia”, quel piano in cui la Fenice equivale alla Terra e alla Pietra angolare del Tempio. Il progredire della “Coniunctio oppositorum” porta alla successiva Coagulatio, evoluzione dell’unione precedente che dona all’Imperatrice natura creativa e all’Imperatore quella conservatrice, tant’è vero che sarà nel blasone di quest’ultimo dove la Fenice coverà il proprio uovo in grado di schiudersi con la mandorla della completezza contenente l’Anima Mundi nel XXI Trionfo. Il “Solve et coagula” si era già compiuto giusto in questi Arcani maggiori, Imperatrice e Imperatore, Venere e Marte, in quanto figure speculari, di natura opposta, ma complementare, perché insieme ritratti d’una stessa sostanza. In uno scudo, posto in alto a sinistra, la Fenice si rivolge in senso controlaterale, viceversa nell’altro, sito in basso a destra. I loro sguardi si cercano, nell’assecondare la direzione degli scettri, impugnati per il verso corrispondente alle rispettive funzioni simboliche del femminile e del maschile.

 

L’altra “coppia dallo sguardo”, questa volta divergente, risulta composta da L’Hermite (VIIII) e La Force (XI), quasi in modo da dar ragione al cambiamento di rotta contrassegnato da La Roue de Fortune (X). L’accuratezza nel disegno degli occhi dei personaggi, eseguito in modo da consentire di individuare con precisione la direzione visuale, è un’ulteriore, arricchente, caratteristica che contraddistingue il mazzo provenzale.

 

Riferimenti bibliografici

 

Case P. F. The Tarot: A Key to the Wisdom of the Ages, Macoy Publishing Company, New York 1947

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