Saggi Storici sui Tarocchi di Andrea Vitali

Saggi dei Soci e Saggi Ospiti

Leonardo e le Carte

Il mondo dei giocatori di carte fra perseveranti e redenti (secc. XV-XIX)

 

Saggio di Andrea Vitali, ottobre 2012

 

 

Leonardo da Vinci - Antonio da Pistoia - San Bernardino da Siena - San Girolamo - Giovan Francesco Loredan - San Camillo de Lellis - Nicolò Grana - San Francesco Saverio - Paolo Segneri - Carlo Gregorio Rosignoli - San Leonardo di Porto Maurizio - Giovanni de’ Conti Fontana - Carlo Goldoni - Francesco Scarapazza - Luigi Capranica del Grillo - Anonimi giocatore di carte

 

 

Giuoco

 

 

"Uomo, che sia tenuto sospeso per i capelli dalla Fortuna, che si dipingerà come è solito, nella sua ruota, alata, cieca, ec. sotto cui si vedrà un precipizio. Poserà il detto Uomo un piede su una parte della ruota, e l'altro su un globo, alla sponda del precipizio. Vesta abito di color verde. Sia coronato di foglie di zucca. Abbia in cima alla testa una mezza luna, ed un orologio da polvere colle ali. Si figurerà di faccia torbida, ed agitata. Porterà ad armacollo un ammasso di reti. Colla destra mano tenga alcune carte da giuoco, alle quali guardi attentamente. Colla sinistra ponga de’ denari sopra la detta ruota della Fortuna, tra carte da giuoco, dadi, ec. Si mirino i detti denari cadere, e spargersi per terra" 1

 

Alquanto variopinto fu l’universo dei giocatori di carte dei secoli addietro dove si individuano persone a volte scaltre, talvolta ingenue e in gran parte tenaci nel non lasciarsi convincere dalle grida apocalittiche della Chiesa. Quanto segue intende essere un contributo documentario a quel mondo, composto da figure barocche - intendendo con questo termine sia le carte dipinte 2 sia i complessi caratteri dei giocatori -, interpreti questi ultimi di una passione che coinvolse talvolta l’intera loro esistenza.

 

Parleremo anche di santi uomini di Chiesa addolorati nel vedere tante anime schiacciate dal Maligno, da sentire come imprescindibile la necessità di salvarle dalla dannazione eterna.

 

Leonardo da Vinci

 

Fra le diverse Facezie attribuite a Leonardo da Vinci, Il ladro e il merciaio racconta di un ladro scaltro che entrato nella casa di un commerciante venne da quest’ultimo scoperto e chiuso all’interno della casa con doppio mandato di chiavi. Ritornato il merciaio con le guardie, si trovò il ladro seduto tranquillamente a un tavolo sul quale erano poste delle carte da gioco. Tutto faceva intendere dalla disposizione delle carte che i due, cioè il merciaio e il ladro avessero interrotto una partita. Il ladro fece intendere alle guardie che il merciaio avendo perso la partita e dovendogli quindi denari, avesse escogitato per non pagare che un ladro fosse entrato in casa sua. Le guardie, messe di fronte a una simile evidenza e non supponendo altro che una scaltra mossa del merciaio, gli intimarono di pagare e così il vero ladro, aiutato dalle forze di polizia del tempo, uscì bel bello da quella casa con le tasche piene di soldi. L’identità ladro = giocatore = falso viene esaltata da questo racconto: chi giocava o usava le carte non poteva che essere ladro e falso, come la Chiesa e i governi del tempo denunciavano, anche se la sensazione è che qui Leonardo abbia voluto plaudere alla genialità del ladro per lo stratagemma adottato. 

 

Il ladro e il merciaio

 

“Sapiendo un ladro che ‘n suo cognoscente merciaio avea assai danari ‘n una cassa in sua bottega, fece pensiero di rubarliele, e di mezzanotte, entrato in bottega d’esso merciaio, cominciato a dare ordine alla sua intenzione, fu sopraggiunto, la bottega dischiavata dal gran catenaccio. E con grande spavento, posto li occhi alle fessure donde spirava il lume del ladro, subito serrò di fori il catenaccio; e serrato il ladro in bottega, corse per la famiglia del rettore. Allora il ladro, trovandosi dentro serrato, ricorse a un subito scampo della salute sua, e, accesi due candelieri del merciaio e cavato fori un paio di carte da giucare, parte ne gittò per terra, dov’era tristo giuoco, e altrettante ne serbò in mano con gioco bono, e così aspettò la famiglia del rettore. La quale subito che giunse col cavalieri, costui ch’era in bottega, sentendo dischiavare l’uscio, gridò: “Alla fede di Dio, tu m’hai serrato qui per non mi pagare li danari che io t’ho vinti. E io ti giuro che tu mi farà ‘l dovere. E non si vole giuocare, chi non vuol perdere. Tu m’hai fatto mezzo giucar per forza e poi, quando perdi, ti fuggi for di bottega co’ tua danari e co’ mia, e mi serri dentro, perché io non ti corra dirieto”. E così detto, li cacciò la mano alla scarsella per ispiccarliela dal lato. Allora il cavalieri, parendoli esser stato giuntato, fece che ‘l merciaio li diede i danari che colui dimandava ch’eran sua” 3.

 

Antonio da Pistoia 

 

Antonio da Pistoia (1440-1502) trascorse la maggior parte della sua vita al servizio degli Este. Per Ercole I compose la tragedia Filostrato e Panfila, pubblicata postuma a Venezia nel 1508 e con il titolo di Re Demetrio nel 1518. Nonostante l’insuccesso, il Duca lo premiò con 600 lire e con un impiego nella sua dispensa. Malgrado ciò, Antonio lamentava continuamente il fatto di non permettersi nulla a causa del suo stato di povertà: “In camera, in cucina od alle botte / Consumo il tempo, ed alla fin del mese / Avanzo nulla, ed ho le scarpe rotte”. Tralasciando di trattare della sua vita, che comunque trascorse per buona parte a Ferrara, poi a Roma, e al servizio di Cesare Borgia, Antonio, che concluse l’esistenza a causa del mal francese, ebbe sempre a chiedere ai potenti il sostentamento per lui e per i figliuoli “non altrimenti che l’affamato rondinino nel nido il desiato cibo della madre”. Seppure servisse a tanti e bene, il suo insistere lamentevole nella richiesta di denari, che pur riceveva in una certa quantità ma che spendeva disordinatamente, fra l'altro nel gioco e in fugaci incontri con donne, gli impedirono di essere considerato necessariamente utile.

 

Fra i diversi suoi componimenti, degni di nota restano i Sonetti Giocosi. Generalmente sono assai graziosi, pieni di brio, vestiti di leggiadri colori, che aprono il campo alla poesia giocosa italiana resa celebre dal Berni. Cassio da Narni scrisse di lui: “Che in dir faceto ogn' altro al mondo eccede”, e venne ricordato con stima anche dall' Ariosto, dall'Alamanni e da numerosi altri.

 

Di seguito, tratto dai suoi Sonetti Giocosi, uno fra i diversi dedicati a Ercole I, Duca d’Este, dove si evince la passione dell'autore per il gioco:

 

Al medesimo [Ercole I, Duca di Ferrara]

 

Codro (1) non sentì mai si gran tormento,

Ovvero Erisiton (2), quanto sent' io

D'estrema povertà, car Signor mio',

Che appena d' esser nato mi contento.

Nemico all'oro ed in odio all'argento,

Che maledetto sia mio destin rio,

Giove, Apollo, Calliope e Clio,

Lor forza, lor potere e lor momento!

Chi compra spade o roba milanese:
Ed io spendo di dì come di notte,
E secondo l'entrata fo le spese.

In camera, in cucina od alle botte

Consumo il tempo, ed alla fin del mese

Avanzo nulla, ed ho le scarpe rotte.

Chi giuoca, compra o...

Ed io m' ho visto a tanto estremo càdere,

Che non mi trovo pur denar per radere 4.

 

(1) Codro = secondo la leggenda fu l'ultimo Re di Atene. L'Oracolo di Delfi aveva profetizzato che gli Spartani avrebbero perso la guerra contro gli Ateniesi se avessero ucciso il loro Re. Guardinghi, gli Spartani cercarono di non fargli del male, ma Codro, per il bene della sua città, si travestì da vecchio e in tale guisa provocò alcuni soldati nemici che adiratosi lo uccisero dando seguito alla profezia.

(2) Erisiton = Eresittone, Re della Tessaglia. Dal carattere violento e facinoroso abbatté deliberatamente un bosco sacro a Demetra per costruirsi una sala da pranzo. Per vendicarsi la Dea lo condannò a una fame insaziabile e così per cibarsi continuamente, dilapidò tutte le proprie ricchezze, oltre a vendere al mercato la figlia Mestra, che aveva avuto da Poseidone, suo amante, la facoltà di prendere qualsiasi forma in modo da mutarsi in un animale diverso ogni giorno per essere venduta e sfuggire poi ai suoi padroni.  Alla fine, Erisittone divorò sé stesso.

 

San Bernardino da Siena

 

Nemico assoluto del gioco delle carte fu Bernardino da Siena (1380-1444) al quale abbiamo dedicato uno specifico intervento 5. Le cronache ci raccontano della sua capacità di ravvedere i giocatori dal proseguire nell’empia strada del gioco, come accadde a Milano, quando un soldato gli chiese la miglior scelta da assumere fra il seguire il ‘Supremo Imperatore Iddio’ o il Duca per il quale comandava le truppe. Il consiglio di Bernardino, basato su una ferrea logica, riuscì a far arruolare quel comandante fra le milizie di Cristo, cosicché l’uomo per ben dieci anni, tempo che gli rimase prima della morte, non toccò mai più carte da gioco e dadi, rinuncia considerata dal frate “cosa molto insolita à soldati”.

 

“L'altro fatto illustre e memorabile di Bernardino occorse nella Città di Milano, in persona d’un valoroso guerriero molto caro al Duca. Questi un giorno con isfarzo soldatesco fece al Santo la seguente domanda. Se fosse meglio per lui servire al supremo Imperatore Iddio nella sacra milítia dello stato religioso, o pure nella militia secolare à quel Duca?  E qual delle due cose stimasse più giovevole per la sua salute? Diede di buon cuore orecchie alla domanda il santo: e parendoli questa opportuna occasione di guadagnarlo, e di tirarlo à Dio, così rispose. Troppo sciocco sarei o valoroso guerriero, se io prendessi tempo per rispondere alla vostra domanda. Ditemi in cortesia qual e [è] maggior personaggio, il vostro Duca, la cui potestà si ristringe tra brievi confini del Milanese; ò pur il Monarca dell’Universo, il cui dominio si distende per tutto il creato, e se creasse nuovi mondi, come ben potrebbe con un sol cenno effettuare, haverebbe tosto sopra di quelli lo stesso assoluto independente dominio e signoria? Certamente il secondo avanza incomparabílmente il primo. Se dunque è tale questo gran Signore chi potrà dubitare che più gloriosa cosa, e per, l’eterna salvezza più sicura sia, servire à Dio, che non è servire, non dirò ad un Duca, ma à qualsìvoglia Re, Imperatore, e Monarca, che viva, e regni sopra la terra? Restò da queste parole convinto, e mutolo il soldato, e come uccello, o pesce preso nella rete, non seppe trovar il modo di svilupparsene: Anzi dopò d'haver presa compita notitia dello stato e regola de’ frati minori dell'osservanza, pregò con molta istanza Bernardino, che l'orrolasse sotto la sua insegna; perche era risolutissimo; lasciata la militia secolare di combattere sotto lo stendardo del Crocifisso. Li promise di volerlo fare il santo pur che venduto prima quanto possedeva, conforme al consiglio di Christo, lo dispensasse à poveri. E rispondendo il soldato, che senza indugio l' havrebbe esseguito, Bernardino presolo per la mano con spirito di profetia li disse. Va e metti in essecutione quant’hai promesso, e torna, ch'io ti prometto di consolarti: e ti do buona nuova, che diventarai un gran servo, & amico di Dio, & un soldato molto valoroso nella sua militia. Non è da passarsí con silentio, quel che in questo fatto avvenne, & è che mentre gl'accese con le sue infocate parole, il cuore, gl’accrebbe maggiormente, col toccarlo nel braccio, l'incendio. E com'egli medesimo confessò, da quel toccamento del Santo, si senti un’ardore nella mano, e nel braccio si vehemente, che pigliando la via del cuore li pareva, che l'havesse cambiato in un carbone di fuoco. Onde partitosì dal Santo dispensò tosto il suo havere à poveri, e ritornato da lui come glorioso trionfatore della carne, e del mondo, si vestì dell’habito religioso, chiamandosi fra Christoforo di Monca, e perseverò in questo stato insino alla fine tirando molti col suo essempio. E ben mostrava questo novello soldato di Christo, che doveva far così buona riuscita; poiche mentre attendeva all'essercitio dell'armi in compagnia d'altri suoi pari, con tutto che il cattivo essempio di questi alle dishonestà, & à giuochi del continuo l’incitasse, egli non dimeno si mantenne per lo spatio di dieci anni seguiti (cosa molto insolita à soldati) senza haver mai acconsentito à dishonesti incentivi della carne; senza mai haver voluto passar il tempo nel gioco delle carte, o delli dadi, e senza che mai s’udisse della sua bocca una parola in dishonore di Dio o dei santi suoi" 6.

 

Esito differente ebbe il Santo con un ‘Giocoliero’, cioè con un prestigiatore (il Bagatto nei Trionfi), che seppur dapprima convinto, si lasciò in seguito irretire dal suo vizio ritornando al ‘vomito’: “Differente da questo fù l’esito che ebbe un altro. Fù questi un giocoliero, il qùale persuaso dal santo à lasciar la sua pur troppo licenziosa, e pericolosa víta, fece si che lo seguì con molta prontezza; Ma poi vinto dalla sugestioni del nemico, lascíò la sequela di Bernardino, e ritornato al vomito, morì infelicemente avanti li trentadue anni dell’età sua, come gl’havea predetto il santo” 7

 

Di estremo interesse sono gli attributi di licenziosa e pericolosa che il Santo conferisce all’esistenza di quel peccatore in quanto la figura del Bagatto, ovvero del prestigiatore, era avvolta da un’aura di peccato in quanto il suo lavoro espresso attraverso trucchi lo imparentava con il Diavolo. Ne è esempio il seguente passo tratto dalla Demonomania di Jean Bodin, dove i trucchi di un genialissimo prestigiatore vengono interpretati come sortilegi: "Ma la legge di Dio ha voluto mostrare, che basta à verificarsi, che il Sortilegio ha usato de gli incanti, ò intorbidati gli occhi, come fece Trescale innanzi al Rè, facendo venire nelle sue mani gli anelli d’ una catena di oro, che haveva un gentiluomo senza mettervi mano, restando nondimeno la catena intera al collo del gentilhuomo & facendo apparire che il Breviario d’un buon Sacerdote fossero carte da giuoco. Questa tal pruova basta per procedere alla condannatione del Sortilegio, sendo cosa certissima che tali cose, che non si fanno altrimenti per miracolo divino, & tuttavia sono contro natura, si fanno per opera del Diavolo, e per convenzione espressa giurata con esso lui" 8

 

In occasione di una sua permanenza a Bologna, fu attribuito al Santo la seguente vicenda così come riportata dagli Analecta: «L'inveire che aveva fatto Bernardino in Bologna contro il giuoco, se aveva consolate le anime oneste, aveva tuttavia addolorato non poco un povero pittore, di nome Valesio, che col dipingere carte provvedeva alla sostentazione sua e della sua famigliuola. Questi si presenta perciò al Santo e gli fa presente il danno che era per ricevere se i bolognesi avessero davvero smesso di giuocare, e come egli e la sua famiglia avrebbero dovuto perire di fame. Bernardino, sentite le ragioni di costui, e conosciutolo di animo semplice, prese a confortarlo, e dissegli: “Tu non dipingerai più carte da giuoco, perché non devi cooperare al male altrui, sibene questa sigla del Nome santo di Gesù, e vedrai che con tale lavoro non ti verrà meno il pane. Soddisfatto Valesio delle cose dettegli dal Santo e delle promesse dategli, prese a dipingere il monogramma di Gesù, giusta il disegno presentatogli, e ne trovò tanti compratori, che più non ebbe a pentirsi di avere dovuto smettere di dipingere carte. Fece anzi dei buoni quattrini, perché tutti volevano cartoncini con sopra dipinto il Nome di Gesù» 9. Di seguito il passo originale tratto dagli Analecta: “Cum in quadam civitate magna tam ferventer praedicasset, ut asseres ludentium et tesseras frangerentur, et corburerentur; indignatus ille, qui eos et eas, scilicet asseres et tesseras, facere solebat, ad Sanctum venit, conquerens quod jam pauper efficeretur. Sciscitanti vero S. Bernardino si aliud officium nesciret, respondit, Non. Ad quem Sanctus ait: Dabo tibi sanum consilium: et accipiens circinum, fecit circulum rotundum, in quo solem pinxit, et in medio solis nome Jesus descripsit: quod sicut decuit in summo honore habuit…Quia hoc nomen Jesus in tali figura solari supra se apparuit, et ideo prae magna devotione hanc figuram composuit, et querelanti dixit carpentori, ut tales figuras de cetero faceret. Qui magister sive carpentarius aut artifex hoc faciens, dives effectus est, et majorem quaestum quam prius acquisivit” 10.

 

San Girolamo

 

Altro grande nemico del gioco, tendenzialmente dei dadi, dato che quello delle carte non esisteva al suo tempo, fu Sofronio Eusebio Girolamo, noto anche come san Girolamo, san Gerolamo o san Geronimo (347- 419/420). Alla sua vita dedicò un volume pubblicato nel 1583 il Reverendo Padre F. Bartolomeo Paganelli, fiorentino, dell’ordine di San Girolamo da Fiesole 11. Fra i tanti miracoli operati dal santo dopo la sua morte e descritti nell’opera, tre riguardano giocatori che perseverando nel loro vizio, in occasione di partite tirarono in ballo lo stesso santo maledicendolo o addirittura invocando il suo ausilio per vincere, affermando comunque che grazie alla sua intercessione oppure senza di essa avrebbero vinto a tutti i costi. Ciò che risalta nei tre esempi, riportati dal narratore come assolutamente veritieri in quanto accaduti alla presenza di testimoni, è il fenomeno della ‘straordinarietà’, in quanto ognuno di essi è caratterizzato da fenomeni pressoché paranormali, come li definiremmo oggi: nel primo esempio il giocatore viene fulminato da una saetta proveniente dal cielo, nel secondo i malandrini vengono inghiottiti da una voragine apertasi sulla terra, e nel terzo un dodicenne giocatore viene rapito dal diavolo in persona che lo trascina all’Inferno. Sebbene l’autenticità di quanto accaduto nei tre casi, così come per gli altri miracoli descritti, venga affermata con espressioni tipo “alla presenza di molti” o “per molti altri testimoni si possa provare”, risulta evidente una finalità agiografica adottata per colpire l’immaginazione del popolo.       

  

 Vita di San Girolamo

 

Miracolo d’un bestemmiatore - Cap. XLIIII

 

“Non sono ancora quindici di che in Sāmaria un misero huomo, il quale haveva consumato tutto il suo in giucare, & havendo un giorno, giucando, perso, cominciò à bestemmiare villanamente san Girolamo. Et subito, vedendo molti, che quivi erano presenti, venne una saetta dal cielo, & l’ammazzò”.

 

Miracolo di tre giucatori - Cap. XLV

 

“A’ tre altri huomini avvenne questo in Tiro che, giucando, dissero d’accordo. O’ Girolamo, sforzati con ogni tua possanza, che, ò voglia ò nò, noi finiremo questo giuoco allegramente. Et detto questo giucando, alla presenza di molti, s’aprì la terra, & inghottilli, talche mai più furono veduti”.

 

Miracolo d’un giovane, che giucando fù portato via dal demonio - Cap. XLVI

 

“La Testimonianza, che si prova di veduta è vera, peroche quello, ch’io dirò, ben che per molti altri testimoni si possa provare, nondimeno io sono di questo testimonio, perchè con li propri occhi lo veddi, & così lo provo. Appresso alla casa mia, dove habito in Gerusalemme, stava un cavalieri belisimo di corpo, & ricco di beni temporali, il quale haveva un suo figliuolo, al quale portava tanto sviscerato amore, che non solo non lo correggeva del male fare, ma gli insegnava operar male, & questo dico per i padri stolti, & simili costui, acciò piglino da questo esempio, & non voglino essere per troppo amore causa della perdizione dell’anime, & de’ corpi de’ lor figliuoli. Hora crescendo il figliuolo di detto cavaliere, e seguitando ogni vizio, andando sēpre [sempre] di male in peggio, spendendo il tēpo [tempo] suo in giucare, bestemmiare, & in ogni altra immōdizia [immondizia] pervenne all’età di dodici anni. Un giorno giucando col padre, & havendo giucato infino appresso à sera, & vedendosi non haver buon giuoco, come desiderava, cominciò a dire queste parole. Faccia Girolamo, il quale prohibisce il giuoco, ciò che può, che à suo dispetto mi leverò di qui vincitore. Il che havendo detto subito venne uno spirito diabolico in similitudine d’uno huomo molto terribile, vedendo molti, che quivi erano presenti, & prese questo sventurato figliuolo, & portollo via. Et non si seppe mai, dove selo portasse. Credo io che lo portasse all’inferno, perche mai più fu veduto. Nella medesima hora, che il caso occorse, stando io ad una finestra della casa mia, la quale riguarda il luogo, dove costoro erano à giucare, per essergli à dirimpetto, veddi il detto padre, & figliuolo; & il detto giudizio, & tutto ciò, che quivi occorse, del che hebbi grandissima paura, & spavento” 12

 

Giovan Francesco Loredan

 

Giovan Francesco Loredan (1607-1661) fu letterato di grande fama oltreché componente del Maggior Consiglio veneziano. Fece parte dell’Accademia degli Incogniti, di cui fu zelante mecenate 13. Echi di una polemica antistiglianesca 14 sono presenti nel Cimiterio, raccolta di epitaffi giocosi scritta assieme a Pietro Michiel (autore anche di un'ode in calce alla Vita del Marino e dell'epistola eroica Idraspe a Dianea in calce al romanzo). Questi epitaffi, in quartine di endecasillabi a rima chiusa, accostano a soggetti giocosi e satirici squarci su personaggi storici mitologici o letterari.

 

Ai giocatori dedicò i seguenti tre epitaffi:

 

Centuria Prima

 

D'un Giocatore - Epitafio XXXVI

 

Qui son d'un Giocator la polve, e l'ossa,
Ch'à le carte giocò sin la divisa;
Giocò la moglie, e i figli, e in nova guisa

Gioca sino co' vermi entro la fossa 15.

 

D'un Giocatore - Epitafio XXIX

 

Mi pose sì d’ogni disgratia al fondo

Quando giocai Fortuna maledetta:

Che morir volsi sol per far vendetta

Con chi trovò le carte all’altro Mondo 16.

 

Dello Stesso - Epitafio XXX 17

 

Quivi d’un giocator l’ossa son sparte,

Che giocò giorno, e notte a la bassetta,

Hor sol chiama la Sorte maledetta,

Perché l’ombre non giocano alle carte 17.

 

Nell’Historia Catalana, trattando delle genti spagnole, il Loredan evidenzia come il gioco delle carte fosse assai amato in quella terra tanto da generare eroici furori in molti suoi frequentatori. L’autore riporta come esempio una vicenda accaduta a Procore che pazzo per il gioco giunse a ferire il suo rivale, un Piacentino che per tornare in salute dovette affrontare lunga e penosa malattia. Procore, di contro, trascorse diverso tempo della sua vita nelle reali prigioni.

 

“La natione Spagnuola è in eccesso dedita al giuoco; il che fa credere, che non sia così prudente, come si crede. Perché qual è il maggior segno d’imprudenza, che il sottomettere l’industria humana alla fortuna delle carte, e dei dadi? Inventione da perdere il tempo, ch’è stata biasimata dai più saggi.

Procore, ch’era lontano e ritenuto da tutti gli altri vitij; ai quali è soggetta naturalmente la gioventù di Spagna; haveva questo difetto di non potersi ritenere dal giuoco, oltre l’essere un infelice giocatore. S’appassionava poi in questo con tanta violenza, che se perdeva era insopportabile ne’ spergiuri, e nelle disperationi; e se vinceva non si potevano sofferire le di lui insolenze, e pazzie. Gli humori così fatti doverebbero isfuggire il giuoco, come se fosse uno scoglio; perché egli per ordinario è l’origine dei più infelici naufragi.

Così avvenne di Procore, perché un giorno, o più tosto una notte infelice imbarcatosi nel giuoco con uno Scolare Italiano, d’origine Piacentino, venne facilmente dalle contese alle ingiurie, e dalle parole agli effetti. Diedero di mano all’armi, e decisero di tal maniera le loro contese che l’Italiano passato da un canto all’altro cadè in terra come morto non havendo Procore che una picciola ferita in un braccio. Il rumore fu grande, fermarono le Porte, ed arrestarono Procore consignandolo nelle mani della Giustitia. Vennero li Chirurghi alla cura del Piacentino, che giudicarono la di lui salute non affatto disperata, benchè la cura fosse pe riuscire lunga e difficile” 18.

 

San Camillo de Lellis

 

Da diversi autori siamo dettagliatamente informati sulla vita e le opere di Camillo de Lellis (1550-1614) fondatore dell’Ordine dei Camillitani, ovvero dei Chierici Regolari Ministri degli Infermi. La madre, prima di darlo alla luce sognò che avrebbe partorito un bimbo recante una croce sul petto, circondato da tanti altri fanciulli con lo stesso simbolo. Come Cristo, Camillo nacque in una stalla 19, ma con inclinazioni diverse da quanto quel sogno profetico aveva indotto a pensare. Infatti, la sua natura lo spinse ad allontanarsi dagli studi e ad abbracciare, come il padre, la carriera militare. Soprattutto, Camillo era attratto dal gioco delle carte, un’ossessione che lo spinse addirittura, come vedremo più avanti, a cercare di sfidare i suoi colleghi di lavoro quando, assunto come inserviente in un ospedale di Roma - dopo essere stato lì ricoverato a causa di una ferita alla gamba occorsagli durante un’azione militare -, nonostante i numerosi richiami, venne colto con un mazzo di carte nascosto sotto il letto. Come Paolo di Tarso sulla via di Damasco, anch’egli venne colto da una folgorazione divina, grazie alla quale gettò via le carte e trasformò in santità la propria vita.

 

Di seguito riportiamo diversi episodi salienti della sua vita, tratti da svariate agiografie, che mettono in luce la sua vita, dapprima dedita al gioco e successivamente alla cura degli infermi:

 

“II... Nel tempo in oltre, che n'era incinta la Madre sognò, che partoriva un fanciullo con in petto la Croce, e l’accompagnavano altri fanciulli ornati con la stessa divisa".

 

"III. Sembrò da principio, che non fossero per avverarsi tali presagi, mercè Camillo lasciata appena adulto la scuola, come non confacevole al suo genio, si diè ad esempio del Padre all' esercizio dell'armi, ed a tutta quella licenza, che ne suol' essere inseparabile. Signoreggiollo principalmente una tal passione al giuoco, che fu ridotto per aver con che vivere ad accattare, e servire in vilissimi impieghi. Ma finalmente arrivato all'età di venticinque anni, dopo che il Signor Iddio l'ebbe liberato con ispecialissima assistenza da molti pericoli corsi in mare, ed in terra, e da una mortalíssima infermità, mentre cavalcava sovra un giumento il secondo dì di Febbrajo consagrato alla Purificazione di Maria Vergine; lo ferì con un colpo sì possente della celeste sua Grazia, che fu costretto a gittarsi per terra, e quivi inginocchiato su un sasso dileguars’in dirotte, amarissime lagrime, percuotersi fortemente il petto, detestare, pienamente contrito i disordini della passata sua vita, ed unire a tutto ciò una inviolabile risoluzione di consagrarsi per l’avvenire interamente al Divino servigio” 20.

 

“Ne’ primi anni di sua fanciullezza, giusta il costume delle persone civili, fu Camillo mandato a scuola, ma rapito assai presto dall'inclinazione in lui diramata col sangue, e dal suo genio guerriero, imparato appena a leggere, e scrivere, si diede in preda al giuoco delle carte, e de' dadi, e di tutti que' trastulli, che si cercano con tanto d'avidità da' Giovani secolareschi: e come riusciva leggiadramente nella recitazione dell'egloghe pastorali, dilettossi non poco di questo vano esercizio” 21.

 

Camillo và a Roma. Serve nello Spedale di S. Giacomo. Si fa Soldato: e passa molti pericoli.

 

“Trattenutosi alcun tempo nell'Aquila, dalla vergogna che un Soldato andasse colla gamba fasciata fu spinto a Roma, dove sperò una brieve, e sollecita cura della sua piaga. Quivi giunto, ed inteso che nello Spedale di S. Giacomo erano valenti Cerusici, vi si allogò per Servente, e vi soggiornò per più mesi. Non era ancora perfettamente guarito, che da Angelo Napolitano (così chiamavasi il Mastro di Casa del detto Spedale) fu licenziato, a cagione del suo terribil cervello sempre in briga cogli altri Serventi, e della sfrenata passione, che portandolo violentemente al giuoco delle carte gli faceva abbandonare gl' Infermi, e nulla curare i lor patimenti. Avealo più d'una volta ammonito; ma non osservando in lui veruna emendazione, e trovato in ultimo sotto il capezzale del di lui letto un mazzo di carte, non potè più oltre soffrirlo” 22.

 

“Composte per allora le differenze tra i Veneziani, ed il Turco, anzioso sempre Camillo di ritrovar fortuna nelle guerre, si arrollò alle bandiere di Spagna, e nell’anno 1574 procurò di essere ammesso nella compagnia comandata da un Capitano per nome Fabio, perché appunto in questa ritrovavansi molti valenti giuocatori, che da lui sempre ricercavansi con somma ansietà. In tal’ epoca portossi con le altre truppe alla difesa prima di Tunisi, e poi della Goletta minacciata dai Turchi. Tanto in questa spedizione, che riuscì del tutto priva d’ogni buon effetto, quanto nello sforzoso ritorno incontrò Camillo gravissimi pericoli e per mare, e per terra, e principalmente allorquando viaggiando per ultimo da Palermo a Napoli suscitossi una così orribile procella, che le infelici galee per tre giorni, e tre notti intere divenute bersaglio dei venti furono vicinissime a perire, tenendosi tutti oramai per morti, e Camillo istesso nonostante il suo spirito bellicoso, e guerriero, rimasto atterrito, e spaventato non meno de’ suoi compagni pianse, impallidì, e rinnovò il voto di vestir l’abito di S. Francesco, ogniqualvolta campasse da quel sicuro periglio. Giunsero finalmente in Napoli le medesime galee, ma cosi fracassate, e non più atte a servire, che furono licenziate le compagnie, e Camillo di nuovo restò libero dalla milizia, e fuor d’ogni impiego. Era egli sì mal ridotto per i strapazzi sofferti nelle guerre, e per le perdite continue fatte nel giuoco mentre dimorava in Palermo, che avrebbe dovuto senz’altro rientrare in sè stesso, ed intimare una perpetua guerra a quella sua predominante passione, che troppo sensibilmente lo conduceva alla totale ruina. Ma che non può nel cuore degli uomini la forza delle passioni o non estinto a tempo, o almeno non represse con tutti gli sforzi i più vigorosi! Acciecato sempre più da siffatta, ostinata passione, anche in Napoli si dedicò al giuoco, sperando fortuna migliore; ma quivi ancora, cosi disponendo la divina provvidenza, che volea oramai compiere su di lui i più stupendi prodigj, ebbe sempre per compagna de’ suoi giuochi l’avversa fortuna, giugnendo a perdere la spada, l' archibugio, i fiaschi della polvere, il mantello, e perfino la camicia, che avea indosso, e che fu obbligato a togliersi nella pubblica contrada di S. Bartolomeo. Ridotto così all’estrema mendicità in istato da non potersi più rivolgere al giuoco, deliberò con un suo compagno parimente soldato per nome Tiberio di correre quà, e là pel mondo, affine di rinvenire miglior fortuna, senza neppur sapere a qual partito appigliarsi” 23.

 

Nicolò Grana

 

Se Camillo fu talmente dedito al gioco delle carte prima della sua conversione, molti suoi discepoli che ebbero a che fare con altrettanti accaniti giocatori, furono mossi dalla speranza di condurli sulla retta strada. Un’azione dovuta non solo al fatto che quel gioco era considerato peccaminoso, ma perché era stata proprio quella passione a condurre il Santo Fondatore dell’Ordine a vivere in gioventù una spericolata esistenza. Memore di ciò, Padre Nicolò Grana, primo prefetto del Noviziato di Roma, dedicò grandi energie al tentativo di salvare dalla prigione un giovane religioso, lì confinato per aver rubato una certa quantità di arnesi da una cassa che non gli apparteneva. Mossosi a compassione, Padre Nicolò consegnò al giovane i denari richiesti per la sua liberazione affinché egli stesso, col permesso dalla polizia, li consegnasse al derubato. Il giovinotto, invece di consegnarli, con tutta noncuranza si recò all’osteria dove perse i danari alle carte. Chiunque, a questo punto, avrebbe rinunciato, intuendo l’impossibilità di poter salvare quell’anima, ma non Padre Nicolò, il quale resosi conto della sincera costrizione che in quel frangente il giovane aveva espresso, gli rimise in tasca la somma persa che questa volta venne consegnata. Il giovane, ritornato a indossare gli abiti religiosi, dedicò la sua vita agli insegnamenti del Signore e per questo Padre Nicolò si sentì “di esser qual Archangelo Raffaele, à quell'Errante, non meno medicina, per il corpo, che per toglierli dall'Anima il Demonio, che in tante guise l’haveva insidiato”.

 

“Nell'anno del Signore 1630, nelle Carceri all'hora di Corte Savella, si trovava frà gl' altri trattenuto un Giovane, che alla lacera gonnella di seta, dava segno di essere Chierico, imputato d'havere in una Camera locanda, rubato da una cassa, quantità di arnesi, per la valuta più di 40. scudi, e perche non haveva da poter saldare questa sua piaga, era sì gran tempo, che si trovava ivi querelato, che divenuto ne era il Decano: onde essendosi anco questo raccomandato al P. Grana, e dettoli in confidenza in oltre, come che era da molti anni Apostata di una gran Religione e che haveva ricevuto l'ordine del Diaconato, mà che per esser cresciuto in età, e d'estraneo Paese, non era conosciuto: mosso il P. Nicolò à compassione dello stato infelice di quell'Anima, in tante guise allacciata dal Demonio, si prefisse nell'animo, di aiutarla, acciò che si riducesse à buona vita: onde quotidianamente, dalla Casa nostra, gli mandava il vitto, per mantenerlo, vino, cibi, & anco l'incominciò à rivestire, e li donò un Breviario, acciò che lodasse Iddio, conforme era suo obligo; e con libri spirituali, e frequenti esortationi, procurava disporlo alla penitenza. Ben è vero, che l’habito cattivo fatto da quel misero, nella dissolutezza, con la conscienza arruginita di tanti anni, lo faceva assai frequentemente cadere in attioni di poco buon'esempio, anco à gl'altri Carcerati, i quali, come che non sapevano tutto il secreto, mormoravano, e si scandalizavano, che il P. Grana, perdesse il tempo, l'olio, e l'opera, per uno, che da essi era reputato il peggiore: mà il Padre, che operava solo per amor di Dio, e ben sapeva l'infelice condition di quell'Anima, trattò con l’offeso, che haveva havuto danno nella robba, e gl'indusse, con prometterli di farli sodisfare li scudi 40. à cassar la querela, e che dal Giudice fusse assoluto; quando, che hebbe le cose così diposte, la semplicità del buon Padre, indusse à dare tutti i quatrini, in mano di quel misero Prigioniero; il quale instigato dal Demonio, ò dalla sua mala inclinatione, ò forsì provocato da gl'altri, poco differenti da i suoi costumi, incominciò quella notte à giuocare alle carte, e talmente s'incalorì, e vi hebbe disdetta, che con iscandescenza scandalosa, venne à perdere tutta quella moneta, e perche tutti gl'altri sapevano d'onde erano venuti, & à che effetto dovevano servir quei danari, non solo li fecero insulti, mà con molti biglietti, à pena venuta l'alba, fecero avisato il P. Grana, come à suon di bestemmie horribili, i danari da lui procurati per elemosina, erano stati prodigalmente giuocati da quel vitioso, che egli tanto ostinatamente favoriva; e che questo era un dar fomento al vitio di quell'Huomo imperversato, e che per un'opra così indegna, era meritevole d'ogni gastigo. E da credere, ch'ogn'altro Huomo, si sarebbe adirato in caso simile, & almeno si sarebbe sbracciato, e proposto di non s'intricar più con un Sogetto così incorrigibile: e pur è vero, che il P. Nicolò, à tale aviso, altra commotione non hebbe, che voltandosi al suo Crocifisso Signore, vuole Iddio Benedetto (dicendo) far prova, se io tuttavia persevero, à procurare la salute del mio Prossimo, sapendo, che in tante guise l'Anima di colui era in gran pericolo allacciata dal Demonio, andando di male in peggio: laonde io mi prefiggo di non desistere, diceva, fin tanto, che à gloria di Dio, non la libero da tante miserie; così senza attendere à quell'inutili richiami, nè à rispetti Humani, seguitò l'istessa mattina à mandarli il consueto vitto, solo venuto il giorno di Sabbato, nel quale era solito andare à confessare gl'altri Carcerati, chiamò nella Cappella quel Meschino, che tutto confuso, non ardiva presentarseli avanti, e con le lacrime à gl'occhi, riprendendolo, & ammonendolo, procurò d'indurlo à conoscere la gravezza del suo errore, e dello scandalo, che haveva dato su gl'occhi di quegl'altri, & anco, nel cospetto di Dio; dove che era evidentemente nota la sua conditione Claustrale, & Ecclesiastica, in tante guise da lui conculcata: e se mentre era così gastigato da Dio, era tanto inreverente, e contumace, che cosa haverebbe fatto, se fusse stato mantenuto nella quiete, e felicità: onde doveva temere, che dal Cielo non gli si dovessero maggiori gastighi, e che perciò si risolvesse una, volta di tutto cuore ad abborrire la sua male applicata vita. E quello entrato in se stesso gli dimandò tutto dolente perdono e promesse di frequentare i Santissimi Sacramenti, e d'aiutarsi in ogni guisa, anco con soggiacere à qualsisia pena, per ridursi quanto prima al suo ovile, il P. Nicolò, altresì fece à lui promissione di aiutarlo, per questo intento: laonde fatta nuova diligentia del danaro, che si richiedeva, per sodisfare al Creditore di lui, & assettate le cose spettanti al Fisco, lo pose in libertà, e con ufficij, e prieghi, ottenne dal Superiore della sua Religione, che fusse rimesso nel numero, e vestito dell'Habito, con sodisfare, conforme era giusto, con tollerabili penitenze; & in questa guisa si studiò il P. Nicolò, di esser qual Archangelo Raffaele, à quell'Errante, non meno medicina, per il corpo, che per toglierli dall'Anima il Demonio, che in tante guise l’haveva insidiato” 24.

 

San Francesco Saverio

 

Francesco Saverio (1506-1552) nato Francisco de Jasso Azpilcueta Atondo y Aznares de Javier, missionario spagnolo, viaggiò in lungo e in largo nelle Indie convertendo alla fede in Cristo un ingente numero di persone, azione che gli valse l’attributo di ‘Apostolo delle Indie’. Sulle conversioni al Cristianesimo delle comunità asiatiche, occorre dire che sebbene Saverio fosse un missionario e non un occupante militare, che lavorò per la maggior parte della sua vita con le sole armi della parola e dell'esempio personale, non possiamo trascurare il fatto che tali conversione era in più regioni associata ad un atto di aggressione coloniale, frequentemente legata, in diverse zone, alla più dura intolleranza religiosa e al più violento abuso di potere, atteggiamenti che Saverio criticò aspramente 25.

 

Il futuro santo mentre si trasferiva in nave da Meliapor a Macazar (l’attuale Macassar), ebbe l’occasione di salvare l’anima di un soldato salito anch’egli sulla stessa imbarcazione quanto quest’ultimo, giocando a carte sulla nave con altri avventurieri, aveva perso non solo i propri denari, ma anche quelli ricevuti da un mercante affinché li consegnasse a un suo corrispondente di Malacca. Terribilmente colpito da quella disgrazia, il soldato, maledicendo Iddio e i santi tutti, aveva deciso di farla finita gettandosi in mare. Il Santo intervenne cercando di consolarlo, ma dapprima ne ricevette solo ingiurie. Allora, fattosi prestare da un amico la somma che il soldato aveva perso, propose a questo che ritornasse a giocare assicurandolo che questa volta avrebbe recuperato quanto aveva precedentemente perduto. Proposta che, ovviamente, venne accettata. Prima però di consegnare i soldi al soldato, Saverio prese le carte in mano, come per purificarle. Il soldato vinse, e mentre preso da entusiasmo intendeva ricominciare il gioco per vincere ancor più di quanto gli occorreva, venne fermato dal santo che lo invitò a pensare al grande rischio a cui quella passione l’aveva indotto, facendogli perdere non solo i denari, ma anche l’anima. Sicché, dopo un lodevole pianto, il soldato abbracciò la fede in Cristo e da quel momento in poi non tocco mai più le carte da gioco.

 

“Risoluto dunque S.  Francesco di abbandonare Meliapor per diportarsi a Malacca, e d'indi a Macazar, licentiossi prima con particolare affetto dall' Apostolo S. Tomaso, e poscia da quei Cittadini, i quali forte dolendosi e dirottamente piangendo l’accompagnarono alla nave. Nel partire ch' egli fece, lasciò loro un singolar pegno del suo amore, attestando che non haveva trovato nell' India verun popolo meglio inclinato; per il che promise loro che quel Paese sarebbe sempre cresciuto d'ogni prosperità, come in fatti successe, vedendosi sensibilmente gli effetti di quella potente Benedittione del Santo. Gli diede campo questa navigatione d’operare uno de' più gentili miracoli, che la sua carità gli sapesse mai suggerire. Nella medesima sua nave viaggiava un Soldato assai dedito al giuoco delle carte e un giorno gli andò sì contraria la sorte, che non bastandogli di haver perduto quanto haveva del suo, perdè ancora non sò quante centinaia di scudi consegnategli da un Mercante per portarle a un suo Corrispondente in Malacca. Da queste disgratie arrabbiato l’Infelice sfogò prima in horrende bestemmie contro Dio; indi ritiratosi a considerare le sue sciagure diede in una profonda malinconia, da cui passato alla disperatione stabilì di terminare i suoi guai con gettarsi nel mare. Il Santo avvisato corse veloce ad abbracciarlo suggerendogli parole di molto conforto: mà la piaga di quel cuore era tanto crudele, che il medicamento serviva solo a inasprirla, e il Santo non ne riportò altro rendimento di gratie che sconce villanìe. Accortosi dunque che in vano trattava di salute con un frenetico, si pose a trattarne con Dio alzando gli occhi al Cielo, e inviandovi calde preghiere. Poscia fattosi imprestare da un Amico cinquanta reali portolli prontamente al Soldato dicendogli con volto allegro che tornasse a giuocare, e non dubitasse. Prima però egli medesimo pigliò il mazzo delle carte e maneggiatele alquanto restituille. Ben si conobbe la virtù maravigliosa, che le mani del Santo impressero in quelle carte, perchè appena il Soldato si rimise a giuocare, che provolle tutto altre di prima, cioè sempre favorevoli senza mai fallirgli una partita, onde ricuperato in brieve tutto il perduto, cominciava già a sopraffare il Compagno. Mà il Santo che gli assîstè sempre al giuoco, vietogli di proseguire più avanti, e mentre questi stava hormai disposto alla correttione, tiratol da parte gli fè avvertire il gran rischio, in che la passione l'haveva posto, di perder insieme l'anima, il corpo, e tutto sè stesso. Si compunse il Soldato, pianse i suoi eccessi, e guadagnato a Dio dalla carità del Santo non toccò mai più carte da giuoco” 26.

 

Paolo Segneri 

 

Su Paolo Segneri (1624-1694) predicatore gesuita e scrittore così scrisse il conte Corniani compendiando la sua vita nell’opera La Storia della Letteratura Italiana: "Nacque Paolo l'anno 1624 in Nettuno, ragguardevole castello della campagna di Roma, da Francesco Segneri e Vittoria Bianchi. Egli fu il primo di ventidue figli che dal loro maritaggio ebber la vita. Perché conseguisse una nobile educazione fu collocato Paolo al Collegio Romano, ove dispiegò subito pronto e sottile ingegno, e fu inoltre specchio a' suoi condiscepoli, d'innocenza di costumi e di modestia di portamento. Gli sorse in animo, fatto adulto, di abbracciar l'istituto de' Gesuiti che era quello de' suoi precettori. Entrato nella Compagnia, dimostrò ben tosto una forte disposizione a divenir valente nell'arte del bello scrivere, e a tale intendimento egli si pose a rovistare indefessamente i più puri ed eleganti sostegni del toscano linguaggio, ed, a cagion d'esercizio, a voltare in esso alcuni squarci più splendidi dell'Oratore romano, e un'intera decade delle Guerre di Fiandra di Famiano Strada" 27.

 

Seppur lodato, tanto da essere considerato dai critici cattolici il maggior oratore italiano dopo Bernardino da Siena e Girolamo Savonarola, per Francesco De Sanctis fu un mediocre scrittore che cercò di abbellire il luogo comune con citazioni, esempi, paragoni e figure retoriche.

 

Potremmo chiamare un passo dell’opera Il Cristiano istruito nella sua Legge come 'la litania dei sassi' in quanto fu con questi ultimi che diversi giocatori intesero sfogare la loro rabbia per aver perso al gioco mutilando statue del Bambino e della Vergine. I sassi lanciati furono talmente tanti ‘che se n'e potuto compilare un' intero libro’, scrisse l'autore anche se, fortunatamente, si limitò a illustrare appena quattro episodi.  

 

Ragionamento Trigesimosecondo

 

"In Roma, nella Chiesa della Pace, si adora un'immagine della Vergine bagnata di sangue, per li colpi di più sassate che ella sostenne da un Giucatore infuriato. In tempo di Filippo Augusto, Re di Francia, un Soldato giucatore per rabbia delle sue perdite, con un sasso ruppe un braccio al Bambino, che la Vergine teneva in seno, dalla cui ferita pur corse sangue in gran copia. Un' altro pessimo Giucatore, nella Città di Buda, con un sasso ruppe la fronte ad un Crocifisso, che stava in un Cimitero. Un' altro in Magonza, l'anno milletrecento ottantatrè, dopo haver perduro il suo, portossi disperato alla Chiesa per vendicarsi, e gettò giù dall'Altare l'immagine del Crocifisso, la fece in pezzi, e lacerò in mille modi la Vergine che stava appiè della Croce. Che più? Ma io non voglio più per la bocca sì atroci facti, che tutta me l’avvelenano. Vi dirò bene, che sono tanti di numero che se n'e potuto compilare un'intero libro” 28.

 

Carlo Gregorio Rosignoli

 

Fra le nutrite opere moraleggianti tese a emendare i cattivi costumi dei giocatori, del gesuita Carlo Gregorio Rosignoli o Rossignoli (1631-1707) spicca Il Giuoco di Fortuna overo il Bene, e ’l Male de’ Giuochi 29, ricca di storie di giocatori che proprio non volevano saperne di abbandonare anche sul letto di morte il loro amato passatempo

 

Riporteremo quelle che a nostro avviso appaiono le più ilari, sottolineando come la genesi di queste storie sia da addebitare probabilmente all'inventiva di certi religiosi. 

 

“Ho conosciuto un Personaggio, d’insigne dignità, giucatore in tutto il decorso di sua vita, il quale fino all’ultimo spirito comandò, che si recasse a canto del suo letto, innanzi a’ suoi occhi, un tavoliere con un mazzo di carte, accioche non potendo egli giucar colle sue mani, almeno satiasse la folle brama col rimirar gli altrui giuochi. Eccovi in fatti, l’apologo della Volpe, che presa, e condannata a morte, come predatrice de’ polli, nell’esser condotta al supplicio, dimandò in gratia, che la facessero passare per il mercato delle oche, per consolare almeno gli occhi con la vista di quelle: se pur non potea più satiarne le ingordi fauci” 30.

 

“Narrasi di certo giucatore che presso all’agonia, mentre se gli facea la raccomandatione dell’anima, e se gli suggeriva d’invocare i sacrosanti nomi di GIESU e di MARIA, egli freneticando pronuntiava, e repeteva le voci consuete delle carte, spade, coppe, bastoni: passo, l’accetto, vada il resto. Piaccia a Dio, che quel vada il resto, non sia stato un vada l’anima, vada la salute, il Paradiso, Iddio” 31

 

Anche se non riferito al gioco delle carte, ma ai dadi, riportiamo l’improbabile storia di un giocatore il cui testamento prevedeva che le sue ossa divenissero dadi e la sua pelle venisse utilizzata come tavoliere: “Più strana fu la follia d’un altro giucatore, che dopo havere spesa tutta la vita nel giuoco de’ dadi, s’inviscerò talmente in lui il prurito dell’invecchiato costume, che giunto all’estremo ordinò per testamento una stravaganza incredibile, se non fosse riferita da Pascasio Giusto grave Scrittore, le cui parole piacemi di semplicemente rapportare. (1) Inventus est qui quasi parum fuerit in vita lusisse, testamento religiosè caverit, ut ex ossibus suis Tessere fierent, cute verò & membranis mensa, alveolus, fritillaque, quanta fieri posset diligentià, contegerentur. Nimirum ut quod vivus libentissimè factitabat, mortuus etiam, quantum posset, obiret. Si è trovato chi, parendogli poco l’haver giucato in vita, dispose con sollecitudine per testamento, che delle sue ossa si formassero dadi, e della sua pelle, e membrana si coprisse con ogni diligenza il tavoliere del giuoco, e il bussoletto, donde si tirano i dadi: Certamente affinche in qualche modo potesse eseguir morto cio, che vivo havea sempre esercitato” 32.

 

(1) L. 1 de Alea ap. Theat. V. H. Ver. Alea.

 

Se il gioco delle carte era condannato per i secolari, tanto più lo era per i religiosi. Divieti e leggi ecclesiali erano stati promulgati ripetutamente per scoraggiare tale vizio, senza tuttavia ottenere grande successo. Un esempio di quel che accadde ad un prete dedito al gioco, viene riportato dal Rosignoli con il titolo Esempio d' un Parroco giocatore assistito in morte da' Demonj:

 

"A Terrore di quei. Sacerdoti, che per cagion del giuoco trascurano il ve­gliare, e provvedere alla salute delle anime alla lor cura commesse, riferisce Cesario un formidabile successo. Adolfo Rettore di certa Parrocchia anteponea spesso il trattenimento delle carte alla sollecitudine della sua gregge. Stava un giorno diportandosi a primiera, o a tarocco con un suo Cogna­to, quando ne andò in cerca un suo Parrocchiano, pregandolo a grand' istanza, che si compiacesse di venire ad amministrar i Sa­cramenti della Penitenza, e dell'Eucaristia a sua Madre gravemente inferma. Ma ri­spondendo il Prete, che allora aveva al­tro affare per le mani, a cui dovea pri­ma dar compimento, aggiunse alle preghie­re le lagrime, replicando che la donna ag­gravata dal morbo non potea patir dilazione. Di che il Sacerdote annojato, e stizzito si querelò col compagno del giuoco, che quell' importuno non gli lasciava godere un' ora di quiete. Onde il povero supplicante, per non incontrare altro che rimproveri, ebbe per lo suo meglio di tosto partire, sospirando, e piangendo. Di lì a non guari l'inferma sorpresa da mortal parosismo spirò l'anima senza Viatico, e senza Confessione. Di ciò dolentissimo il figliuolo, essendosi, doppo brieve tempo, imbattuto nel medesimo Cognato dell'iniquo Prete, volle farne doglianza con esso lui: il quale ricordevole dell' istanza, e della turbazione data loro nel giuoco, mosso da repentino sdegno, con mortal ferita mandò dietro alla defonta Madre l' infelice figliuolo. Pochi giorni doppo il Sacerdote cadde in gravissima infermità, chefu l'ultimo perentorio di sua vita, e lo citò a rendere al Tribunale della divina Giustizia ragione dl quell'empio giuoco, preferito all' amminist­razione de' Sacramenti. Diedesi a profonda disperazione, persuadendosi che l'anima sua fosse già dannata. La Cognata di lui; che gli stava a canto, veggendolo, senza verun segno di contrizione, imperversar per ismania, s'ingegnò con pia esortazione di ridurlo a senno, e ad invocare la Divina Misericordia; dicendogli che poco più gli restava di vita; ch' eravi ancor tempo di ricorrere alla clemenza del Re­dentore, prima di comparire alla giustizia di lui: che con un atto di vera contrizione otterrebbe il perdono delle tue colpe. Ma lo sciagurato, dimenando orribilmente il capo, rispose con voce lugubre: Vides horreum illud magnum ex opposito nostri? Non sunt in ejus tecto tot calami, quod sunt circa me Dæmones congregati: Vedi là quel gran granaio, che ci sta rimpetto? Non ha tan­ti fustelli di paglia nel tetto, quanti Demonj mi circondano il letto. Ciò dicendo, con deforme, e mortale agonia diede l’infelicissima anima negli artigli di quei mostri, che avidamente l'aspettavano, per portarla a cominciar altri giuochi nell'Inferno. Cosi un numero innumerabile di Spiriti maligni vennero ad assistere, e ad onorare colla loro presenza il transito di quello lor partigiano, che per trattenere a giuocare, lasciò perire senza Sacramenti un'anima alla sua cura consegnata. Sicut Lusores (dice Sant’Antonino) serviunt Diabolo in vita, sic Diabolus servit Lusoribus in morte. Cæsarius lib.5. cap. 8." 33.

 

San Leonardo di Porto Maurizio

 

Leonardo di Porto Maurizio (1676-1751) francescano e missionario apostolico, fu l’ideatore e divulgatore della pratica della Via Crucis. Scrisse diverse prediche, istruzioni catechistiche, esercizi spirituali e altro ancora.

 

Dal Direttorio della Confessione Generale, manuale di istruzioni a uso dei confessori, riportiamo il seguente dialogo fra il confessore e un immaginario penitente a cui viene attribuita una serie infinita di colpe gravi, fra cui quella di frequentare le taverne per giocare a carte, allo scopo di insegnare ai religiosi quali domande porre e come dialogare.

 

"Direttorio della Confessione Generale in cui si porge sufficiente lume si ai confessori, come ai penitenti per farla compitamente con facilità e brevità, composto per uso delle missioni, e per maggior comodo de’ missionari.

 

Dialogo fra il Confessore e il Penitente.

 

"C. Avete portate armi proibite, facendo risse co’ vostri rivali, e mettendovi a pericolo di ferire, o restar ferito, ed arrecar grave danno all’anima, al corpo, ed anche a tutta la vostra casa?

P. Padre, si, otto, o dieci volte ho fatte risse con altri, e ne ho feriti due malamente, ma ho soddisfatto a tutti i danni; e per due anni continui ho portate armi proibite, con pericolo d’andare in prigione;

C. Frequentate voi la bettola e le osterie, giuocando a carte ed altri giuochi abbominevoli, ed ubbriacandovi spesso col prorompere in parole oscene ed in bestemmie?

P. Padre, si, tutto è vero, mi ubbriaco spesso sino a due, o tre volte il mese, giuoco a carte e dadi, e questa è l’occasione delle mie bestemmie; ma eccomi risolutissimo di non ubbriacarmi più, nè di mai più bestemmiare.

C. Non basta promettiate di non ubbriacarvi e di non bestemmiare, ma bisogna promettere di non andare mai più alla bettola, od osteria, e di non giuocare mai più nè a carte, nè a dadi, nè voi potreste essere assoluto, se, avvisato da altri, non vi foste emendato; ma perchè voi mi dite che non siete mai stato avvisato di quest’ obbligo, e dall’ altra parte vi vedo compunto e risoluto di ubbidire, per questa volta vi assolverò; ma avvertite che, eccetto qualche caso di precisa necessità, non mettiate mai più il piede nella bettola, altrimenti non troverete chi vi assolva. In queste bettole poi, o per le botteghe, circoli e conversazioni avete mai mormorato del prossimo in materia grave, che pregiudichi all’onore?

P. Padre, si, questo è il mio debole..." 34.

 

Giovanni de’ Conti Fontana 

 

Giovanni de’ Conti Fontana (sec. XVIII) fu Vescovo di Cesena e autore di diverse opere di carattere moralizzante. Nel volume La Santità e Pietà Trionfante in ogni Dignità, Conditione, e Stato del 1716, tramite il ricorso a coloriti esempi espose la pericolosità del dedicarsi al gioco delle carte. Nel primo riporta una vicenda accaduta in terra Toscana a un cavaliere che non sapendo più quale cosa puntare e vedendo arrivare la moglie vestita con una sottana di broccato, dopo averle intimato di togliersela, la pose sul tavolo da gioco considerando il suo valore non certamente esiguo. Poiché il cavaliere perse anche in quella occasione, lasciamo al lettore per un brevissimo istante di indovinare quale potesse essere il titolo del paragrafo che illustra questo racconto.

 

Punto VI - Giuoco rovina delle Famiglie.

 

“E’ Detestabile il vizio della Gola in un Padre di Famiglia per se stesso, ma più detestabile perché dalla Crapola al Giuoco v’è quasi dissi un passo necessario; Quella Mensa che è stata imbandita di vivande, subito presta se stessa à Dadi, alle carte per il Giuoco, che egualmente rovina le case, e de’ Nobili, e d’ogn’ altro. Io non nego che il Giuoco di sua natura non sia lecito, anzi che talora, usato moderatamente à tempo, e à luogo, è lodevole, ma quando ve ne sia il vizio, eccovi in rovina la Casa, non si pensa à Moglie, non si pensa à Figliuoli, si toglie la robba, e si vende à vil prezzo per aver danari da giuocare. Si vendono, s’ impegnano, si giuocano le Gioie se vi sono, e le Vesti delle proprie Consorti. In una Città di Toscana stava giuocando un Cavaliere, & incancherito nel Giuoco, non avendo più danaro da perdere; vedeste, disse al Compagno, la Signora mia con quel Sottanino di Broccato? Or questo pongo al Giuoco in tre partite, & in tre partite lo perdette, e la povera Consorte si vidde spogliata di quell’Abito, che solo corrispondeva alla qualità dei suoi Natali” 35.

 

Il seguente episodio, alquanto esilarante, parla di un Capitano delle Fiandre, soprannominato il Bravo - e non certo per le sue qualità al gioco delle carte - che dopo aver perso una partita, iniziò a imprecare contro Dio, contro i compagni di gioco e contro sé stesso, per non riuscire a imporre la propria volontà nello smettere di giocare, invocando per questo il Diavolo, affinché lo trascinasse all’Inferno, dove almeno avrebbe smesso di soffrire un simile turbamento. Fu così che improvvisamente, come se una mano invisibile lo governasse, venne alzato da terra fino al soffitto e poi fatto cadere pesantemente a terra, dove restò ‘più morto, che vivo’. Il povero Capitano non si riprese più da quell’esperienza che lo aveva reso ‘stordito, pallido, e trasfigurato’, e che lo fece vivere alla stregua di un cadavere ambulante.

 

Punto XIX - In cui si mostra al Soldato Cristiano, che deve evitare il vizio del Giuoco.  

 

“Udite quanto fosse funesto il Gioco a un Soldato: Era questi quel Capitano Fiammingo per sopranome il Bravo, di cui Derbio ne narra il fatto; Or mentre egli se ne stava un giorno giocando al tavolino con altri Comandanti, e la disdetta delle Carte il tormentava, cominciò, giusta il suo costume in simili congiunture, à prorompere in atroci bestemmie, contro Dio, & in mille imprecazioni contro di sé e de’ compagni: e giunse con tutta rabbia ad augurarsi con la morte ogni disgrazia, fino al precipizio nell’Inferno, richiedendo il Diavolo di portarvelo: quando ecco all’improvviso fu gli occhi di tutti da mano invisibile venne alzato da terra fino alla soffitta della Camera, ove si giocava, dopoi lasciato di peso cadere à terra, qui se ne rimase, più morto, che vivo; Indi à non molto cessato nel cuor de’ circostanti quel grande spavento, fu alzato da terra, e senza mai più riaversi condusse per qualche tempo la povera sua vita infelicemente; poiche finche visse, visse stordito, pallido, e trasfigurato à guisa d’un Cadavero” 36.

 

L’ultimo racconto parla di un giovane dabbene che venne coinvolto da balordi amici a sostenere dapprima le spese di una cena in comune - dato l’accordo che avrebbe pagato colui che fra loro avesse perso al gioco - e successivamente a entrare in una casa di piacere, poiché anche in quella seconda occasione di gioco colui che aveva vinto avrebbe dettato le condizioni su come concludere la serata. Ovviamente, poiché il giovane aveva perso, con riluttanza dovette condiscendere a quanto imposto dal vincitore. Trovatosi in appartata stanza a tu per tu con una donna di facili costumi, le consegnò delle monete pregandola di non rivelare la non attuazione del rapporto carnale che il giovane sentiva come una minaccia alla propria anima. Impressionata dalla richiesta del ragazzo, la donna accettò i denari e la sua richiesta. Uscito da quella casa il ragazzo s'incamminò verso casa nel buio della notte “ma nel mez­zo del camino ebbe l'incontro d'un Venerabile Personaggio, che spargendo d'ogni intorno Luce, s'accostò à Lui e dandogli un buon manrovescio in faccia, disse: ti serva quello per ri­cordo di mai più accompagnarti con simiglianti Amici”. Il giovine ritenne che quel solenne ceffone ricevuto sulla guancia fosse da attribuire al suo Angelo Custode che lo aveva percosso per salvargli l’anima facendogli ricordare, attraverso il rossore del viso che durò per moltissimo tempo, di essere più accorto nella scelta delle compagnie da frequentare.

 

Punto XX - I Genitori distolghino i proprii Figliuoli da’ cattivi Compagni fuori di Casa

 

“Leggesi nel grande specchio degli Esempj come nella Diocesi di  Mastric alcuni Giovani Scolari in un  giorno di vacanza dagli Studi s'accom­pagnarono con un Giovinastro dissoluto, che gl'invitò à diporto per recrearsi ad una Mensa bene imbandita; Entrò dunque in un Osteria, con questo patto però, che nell'imbandirsi della tavola si dovesse giocare con quelle Carte poste da Lui nel medesimo tempo su la Tavola, e chi di loro fosse il perditore, dovesse altresì sodisfare al debito del rinfresco; Non vi fu chi ri­fiutasse il partito, per non sembrare incivile, e nemico delta recreazione co­mune. Si passò dunque la Giornata in gioco, & in crapola, quando nell'imbrunirsi del giorno quel furbo Compagno, veggendo che gli era ben riuscito il primo disegno di porre al gioco, e dal gioco alla crapola quei Giovani,  non temè di potergli indurre all'altro breve palio che v'è dalla crapola alla disonestà, giacchè disse loro, che essendosi spesa quella giornata in giocon­da allegria, si doveva altresì conchiu­dere con una lauta Cena ; la qual' egli proponeva che si giocasse colla condi­zione, che chi restasse vincitore, avesse ancora potestà di comandare à gli altri ciò che gli fosse in grado d'ordinar loro per modo che chiunque recusasse d'ese­guire il comando, dovere egli col suo danaro sodisfare per la Cena; S'accet­tò da tutti il partito, e si venne all'esecuzione, in cui il Demonio, che senza dubbio havea suggerito v'ebbe mano; perche fe toccar la vittoria al Giovinastro consigliero del giuoco. Costui dunque terminata che fu con bagordi la Cena, levatosi in piedi, ordinò, che quanti erano, tutti lo seguissero S'ar­rosisce qui la mia penna à scrivere il luogo ove quel temerario ardì di condurgli, e fu la Casa d'un infame Femina, dove dopoi che Esso fu entrato, comandò successivamente à gli altri che entrassero. S'obbedì al diabolico comando da tutti, fuorche da un Gio­vinetto Nobile di nascita, vago d'aspet­to Innocente ne' costumi, il quale non avendo prima appresa la malizia del gioco; allorchè s'accorse del pericoloso cimento, tremò, impallidì, e si protestò, che più tosto averebbe pa­gato cento Cene, che giamai macchiar con un Neo quella Purità, che fino allora aveva mantenuta illibata. Nul­la però giovarono al casto Giovinetto, nè preghiere, nè offerte, giacchè gli insolenti Condiscepoli, non volendo, ch'egli potesse gloriarsi di non aver obbedito al comandamento, gli trassero il Mantello di dosso, per costringerlo ad entrare. Allora il Misero Gio­vinetto trovandosi alla mal parata can­giò Consiglio, e sembiante, e fingen­do d'esser dalla loro, sì lasciò spignere dentro la Casa, & invocando all'ingresso l'ajuto del suo Angelo Custode, fissò gli occhi verecondi à terra, & alla Femina, che sola era con Esso, così disse; Io non vengo già per offendere Dio, ma per remunerar Te con prezioso donativo (ciò dicendo mise mano ad alcuni scudi d'oro, e offerse) se tu non iscopri la mia innocenza a' miei Compagni, che à viva forza m'hanno spinto al tuo cospetto; La Donna ammiratissima della verginal verecondia del Giovine, e dell' inaspettata sua virtù , promise, e lasciollo uscire più innocente, che non v'era entrato. Egli poi al più presto, che potè, presa una giravolta, si sottrasse da quel scelerato Giovinaccio, e via per la più corta, s'incaminò verso sua Casa nel buio della notte; ma nel mez­zo del camino ebbe l'incontro d'un Venerabile Personaggio, che spargendo d'ogni intorno Luce, s'accostò à Lui e dandogli un buon manrovescio in faccia, disse. Ti serva quello per ri­cordo di mai più accompagnarti con simiglianti Amici, Hoc verbere doctus, pravae Sodalitatis virulento Contagia vereare; Cadde il Giovinetto tramortito à terra: e poscia riavutosi, rimirando attorno, non vidde più quell’ammirabile suo Percussore, onde tenne per costante essere stato l’Angelo suo Custode che l’aveva protetto nel pericoloso cimento della Donna, tanto più, ch’il segno della guanciata gli durò lungo tempo in faccia per continuo rossore di non essersi guardato da’ cattivi Compagni” 37.

 

Carlo Goldoni 

 

Fra le diverse commedie di Carlo Goldoni (1707-1793), di cui abbiamo parlato diffusamente 38Il Giocatore si manifesta come una lezione per tutti coloro che spinti dal gioco delle carte necessitavano di un atto di riflessione.

 

“Il celebre Autore della presente Commedia rende ragione di aver fatto il suo Giocatore sfortunato; ed è questa di aver egli avuto in mira discreditare un vizio quanto mai possa dirsi pernicioso, mostrando le pessimo conseguenze, che d' ordinario nascono. Quindi egli colla Filososia alla mano mostra che chi gioca, il più gioca per vincere, e il desiderio di vincere ha il suo principio, o dall' avarizia 39, o dalla scostumatezza. Nel primo caso cerca il Giocatore di vincere per accumulare; nel secondo per appagare le sue voglie, non misurate dalla propria condizione. D’un altro eccitamento al gioco fa egli menzione, che nasce dalla poca volontà di cose serie. L’arricchirsi, o il soddisfarsi almeno con poca fatica, senza studio, e senza merito, è una cosa che agli oziosi piace infinitamente; ma siccome spesse volte accade loro di perdere il poco certo per la speranza del molto incerto, ciò dovrebbe al fine disingannarli. Queste sono le ragioni, perché ha egli scelto nella sua Commedia un Giocatore di tal carattere, il quale se non piacerà a molti, si persuade egli che gioverà a pochi, e desidera, che sia di profitto a tutti gli Amici suoi" 40

 

Dalla Scena Prima del Primo Atto, riportiamo il dialogo fra Florindo, ‘giovane civile giocatore’ e Brighella, ‘custode del Casino, ovvero delle Stanze del gioco’, luogo dove si svolge l'azione. Florindo, che ha appena vinto cinquecento zecchini, maledice la carta del sette che non è riuscito ad avere: una disdetta perché gli avrebbe fatto vincere una somma molto superiore.

 

Camera da gioco nel Casino - Florindo al tavolino da gioco con lumi, e carte numerando denari, poi Brighella

 

Flor. Oh maledetta la mia disgrazia!

Brig. Ala perso?

Flor. Non ho perso. Ho vinto cinquecento zecchini, ma a che servono?

Brig. La ghe dise poco?

Flor. Oh se tenevo un sette! Maledetto quel sette!

Brig. (Ecco quà, i zogadori no i se contenta mai. Se i perde i pianze, se i guadagna, i se despera perchè no i ha guadagnà tutto quel che i voleva. Oh che vita infelice l'è quella del zogador!) Cossa volela far? Un altra volta.

Flor. Oh in quanto a questo poi, m’ impegno, che questì giocatori li voglio spogliar tutti.

Brig. Lustrissimo Patron, no bisogna fidarse tanto della fortuna.

Flor. La fortuna mi vuol bene; fa a modo mìo. Anche l'anno passato averò vinto altri mille zecchini.

Brig. Lo so benissimo; e la me permetta, che diga, che so anca, che la i ha spesi presto.

Flor. Benissimo; li ho spesi, e per questo? Denari vinti al gioco si possono spendere allegramente.

Brig. Za, quando i se vadagna i se spende allegramente, e po co se perde, bisogna pagar, e s' intacca la cassa.

Flor. Oh via! Mi farete voi cattivo augurio? Sono un giocator fortunato, ma sono anche un giocatore, che sa regolarsi, e vinco perchè ho prudenza.

Brìg. Ma quel maledetto sette?

Flor. Oh quel sette, quel sette! Mai più tengo il sette.

Brig. E l' altro zorno, che i l'ha sbancada do volte, che ponto avevala contrario?'

Flor. L’altro giorno li avevo tutti contrarj.

Brig. Vedela, che no bisogna fidarse tanto della fortuna!

Flor. Oh non mi state a seccare.

Brg. No parlo più per cent'anni.

Flor Tenete questi quattro zecchini, ve lì dono per l’incomodo della notte.
Brig. Grazie a Vussustrissima 41.  

 

Faustino Scarapazza

 

A Faustino Scarapazza, frate domenicano e professore di sacra teologia vissuto a cavallo fra il XVIII e il XIX secolo, si deve il trattato di teologia morale Decisioni di casi di Coscienza. In esso egli evidenzia trattando di un Caffettiere che aveva predisposto tavoli da gioco nel proprio locale per far concorrenza agli altri avventori, come quest’ultimo dovesse essere considerato in peccato mortale in quanto istigava, con la presenza di tavoli e carte, le persone a giocare. Inoltre, il gioco, unito alle bevande che il Caffettiere vendeva, induceva alla lussuria, procurando un ulteriore malanno per l’anima. In conclusione, al Caffettiere, essendo un peccatore, non doveva essere somministrato alcun Sacramento fino a che non avesse tolto quelle carte e quei tavolini rei di tanta rovina! Non sapremo mai a quale decisione giunse il caffettiere anche se possiamo ipotizzarla.

 

CASO IX

 

“Un Caffettiere, per aver un maggior concorso alla sua bottega, e più spaccio delle sue derrate tiene a bella posta camerini con tavolieri, e carte da giuoco, per trattenimento de' concorrenti, sebbene sappia, che ivi si giuoca anche a giuochi vietati, e di puro azzardo, e si espongano anche considerabili, e grosse somme; oppure sebbene sappia, che concorrendovi persone d'ambi i sessi, si fomentano turpi amori. Cercasi, se possa egli scusarci da grave peccato; e come debba regolarsi il Confessore non meno con esso lui, che con quelle persone, che hanno il vizio del giuoco.

La risposta al presente quesito si può di leggieri raccorre dalle dottrine finora esposte intorno al giuoco. Il nostro Caffettiere non può per alcun modo scusarsi da grave, anzi gravissimo peccato; Imperciocchè potrà bensì scusarsi  almeno da grave colpa, chi somministra tavolini, e carte per un giuoco lecito, e moderato per qualunque po di tempo a persone incapaci di farne un abuso, come suol farsi dalle nobili, e ricche persone nel tempo della villeggiatura nelle loro case di campagna; ma il tenere giorno, e notte preparate stanze con tavolini, e carte da giuoco per persone dell'uno, e 1'altro sesso , massimamente allorchè si sa, che v' ha chi se ne abusa o col praticare giuochi proibiti, e di puro azzardo, e coll' esporre somme considerabili, o col fomentare turpi amori, non può essere che cosa mala, e gravemente peccaminosa, perchè si dà in essa occasione di peccare  e si coopera agli altrui peccati. Adunque il nostro Caffettiere pecca mortalmente, perchè nel caso esposto, e nelle descritte circostanze somministra al suo prossimo l'occasion di peccare, e coopera con tutta verità agli altrui peccati. Ma che dovrà fare il Confessore con tal sorta di gente, e con quelle persone pare, che frequentano siffatti luoghi, ed hanno il vizio del giuoco.

Rispondo, che deve tener lontane dai Sagramentì tutte quelle persone, le quali tengono preparate, come il nostro Caffettiere, stanze, tavolini, e carte da giuoco, perchè sono affatto indegne ed incapaci d'assoluzione, come quelle, che sono in continuo peccato mortale: ne deve mai ammetterle ai Sagramenti se non dopo che avran rimossa l' occasion di peccare col chiudere siffatte stanze, e col convertirle in altri usi leciti ed onesti” 42.

 

Lo Scarapazza mette poi in guardia i confessori dal dare facili assoluzioni a coloro che, ammettendo il proprio peccato e dimostrando vera contrizione, assicuravano che non avrebbero mai più toccato carte da gioco, dato che l’esperienza aveva dimostrato che raramente i giocatori di carte erano in grado di mantenere la parola:

 

“Quanto poi a quelle persone, che hanno il vizio del giuoco, che lo frequentano, e massimamente se espongono considerabili somme, e se praticano giuochi di pura sorte non debbono assolversi dal Confessore e non desistano dalla loro prava consuetudine, e non si emendano. Non senza grande difficoltà, e ben di rado potrà e dovrà fidarsi della loro parola, ed assolverli quando promettono di emendarsi; perchè la sperienza ha fatto e fa vedere, che quelle persone, che sono attaccate al vizio del giuoco difficilmente se ne distaccano, e ben di rado mantengono la parola: imperciocchè o il giuoco e la fortuna è loro proprizia, e guadagnano, ed in tal caso ecco, che cresce to to [sic] la loro cupidigia ed avidità; se poi la sorte loro è contraria, e perdono , affine di ricuperare quanto han perduto, giuocano più che mai, espongono quanto hanno, ed anche quel che non hanno, dissipano tutto, non pagano le mercedi, non soddisfano i creditori, e rovinano la casa” 43.

 

Luigi Capranica del Grillo 

 

Luigi Capranica (1821-1891) del ramo dei Marchesi del Grillo guardia nobile del Papa, iniziò la sua attività letteraria come drammaturgo. Non riscontrando il successo sperato si diede a comporre romanzi storici come Giovanni dalle Bande Nere (1857), Fra Paolo Sarpi (1863), Donna Olimpia Panfili (1868), Papa Sisto (1877), Re Manfredi (1884), Le donne di Nerone (1890), romanzi in cui espresse tutto il suo fervente patriottismo. In Fra Paolo Sarpi 44 troviamo un passo di interesse ai fini di questa disamina poiché illustra, assieme ad altri argomenti, fino a che punto il gioco potesse spingere i perdenti a sacrificare le cose più amate pur di rifarsi del perduto. 

 

Rosalia Poma, una bella fanciulla appena ventiduenne, viene descritta dall’autore seduta a un tavolo da gioco circondata da uno stuolo di ammiratori. Poiché continuava a perdere, a un certo punto decise di giocarsi il suo amato cagnolino. Nonostante avesse di nuovo perduto, con raffinata strategia da persona scaltra e combattiva quale era, riuscì a mantenere, grazie anche alla capacità di sfruttare l’ascendente che aveva sul rivale vincitore, il suo fidato compagno di vita.

 

La novella Armida è il titolo del paragrafo a lei dedicato:

 

"Essa era seduta al tavoliere del tarocco. Questo è il suo altare.

Si fissavano di tratto in tratto sulla bella Pugliese gli occhi grigi di Giovanni Steno, che le sedeva accanto, e sulla cui faccia pallida e scarna, nella quale rughe premature accrescevano di due lustri almeno l’età trentenne, balenava il lampo d’una brutale concupiscenza...

Messer Luca Tagliapietra, giovine né bello nè brutto, nè dotto nè ignorante, nè cattivo né buono; messer Memmi Gottardi, il più stupido dei zerbini; Alessandro Parrasio, anconitano, uomo di mezz’età, faccia da patibolo, e maestro di scherma; Nanne Dolfin, giovinetto imberbe, buona creatura, che ancora non avea perduta l’ultima corteccia del seminarista; e Girolamo Veniero gobbo, avaro, dispettoso e libertino, che avea per costume di lasciare ad altri l’incarico di mantener la sua bella quand’egli stava assente da Venezia, erano i sacerdoti, chi più chi meno, innamorati tutti dell’idolo, a cui facevano sagrifizi di ducati e di sospiri.

Rosalia, perduto ch’ ebbe uno dei dieci zecchini, già vinti, s’ alzò e, ridendo, depose in mezzo alla tavola, sulle carte, il cagnolino.

- Ridotta alla disperazione, giuoco il mio pargoletto, ella disse.

Tutti si credettero in dovere di trovar la facezia spiritosissima. E lo era di fatti, perché permise a Rosalia di mettersi in tasca il denaro vinto e d’andarsene alla spinetta.

- Bella Rosalia, disse il Parrasio; veramente non volete più giuocare?

- Ho posto sul tavoliere tutta la mia fortuna, quanto ho di più caro al mondo. Tirate, e se vincete strappatemelo dal seno, crudeli!

Cosi dicendo faceva mille ridicoli gesti, ma con una grazia tutta speciale.

Giovanni Steno la fissava in estasi. Essa si mise a guardarlo, e,

- Neh, messere, gli disse, che occhiacci voi fate da spiritato?

Il Patrizio volle studiarsi a comporre il viso in modo, che avesse l’espressione dell’ uomo, il quale implora pietà.

- Avete l’aria di burlarvi di me, messere, riprese la pazzerella, ponendosi le mani ai fianchi.

- Perché, madonna? chiese imbarazzato il gentiluomo.

- Fate le bocche, come la mia maestra, allorché mi diceva: uh insolente!

- Siete molto crudele, madonna.

- Verissimo, verissimo! esclamarono in coro i sacerdoti

Silenzio, sudditi petulanti, gridò Rosalia; e giuocate. Ecco là il cane.

Giovanni, volendo vendicarsi, le disse:

- Badate, madonna, che il giro tocca a me; e se vinco me lo prendo.

- Quanto lo valutate?

- Uno zecchino al pelo.

- Benissimo! Tirate pure.

- Badate...

- Andiamo dunque, interruppe Rosalia, battendo con rabbia il piede in terra.

Giovanni tirò le carte... Tutti stavano attenti... Rosalia perdette. I cortigiani, compresi di dolore, si tacquero.

- Avete vinto, disse allo Steno la donna.

- Ho vinto.

- Voi non vorrete privarmi del mio zeffirino‘?

- Oh questo poi si.

- Davvero!

- Dovete saldarmi, madonna, certi conti...

- Io non ho conti con voi: ma quand’ànco li avessi, ciò non ha a far niente col cane.

- Il cane dev’esser mio.

- E se ve ne dassi l’equivalente?

- In che valore? dimandò lo Steno, sorridendo.

- In quello che voi stesso gli avete posto.

- Uno zecchino al pelo? Accetto!

- Oh! ohi esclamarono gli altri.

E Rosalia, preso il cagnolino e presentatolo al vincitore, gli disse con un sorriso burlevole:

- Messere, contate i peli e sarete soddisfatto.

Lo Steno, che povero, di spirito, ignorava affatto quello della pronta risposta, rimase per alcun poco come sbalordito e diede campo in tal guisa all’ilarità della donna e di tutti gli altri suoi adoratori" 45 - 46.

 

Note

 

1. Voce Giuoco in “Iconologia del Cavaliere Cesare Ripa Perugino Notabilmente accresciuta d’Immagini, di Annotazioni e di Fatti dall’Abate Cesare Orlandi”Tomo Terzo, In Perugia, Nella Stamperia di Piergiovanni Costantini, 1765, p. 184.

2. Si veda Da ‘Barocchi’ a ‘Tarocchi’.

3.  Aforismi, novelle e profezie di Leonardo da Vinci, Introduzione di Massimo Baldini, Newton Compton, Collana 100 pagine 1000 lire, 1993, p. 23.

4. Sonetti Giocosi di Antonio da Pistoia, e Sonetti Satirici senza nome d’Autore tratti per la prima volta da vari Codici, In Bologna, Presso Gaetano Romagnoli, 1865, p. 26. 

5. Si vedano San Bernardino e le Carte da Gioco e  Il Gioco delle Carte e l'Azzardo.

6. Vite de' SS. protettori della fedelissima citta dell'Aquila raccolte da diversi autori, e nel volgare italiano ridotte dal p. Vincenzo Mastareo, In Napoli, Per Egidio Longo, 1628, pp. 64-67.

7.  Ibidem, p. 67.

8. Demonomania degli Stregoni, cioè Furori, et Malie de’ Demoni col mezo de gl’ Huomini: Divisa in Libri IIII, di Gio. Bodino Francese [Jean Bodin]. Tradotta dal Kr. Hercole Cato, Paragrafo "Confutazione delle Opinioni di Giovanni Vvier", In Venetia, Presso Aldo [Manutio], 1592, p. 397. Riguardo la nostra disamina sulla figura del Bagatto si veda El Bagatella, ossia il simbolo del peccato.

9. Felice Alessio, Storia di San Bernardino da Siena e del suo tempo, Mondovì, 1899, pp. 203-204.  

10. Analecta (Ex duabus Vitis Mss. & totidem excusis, aliisque tractatibus & auctoribus) in "Acta Sanctorum", Maii, Tomus V, Parigi e Roma, 1861. Cap. II: Fructus Concionum ejus, emendandis moribus, haereticis coercendis, sedantis contentionibus relati, Col. 2, p. 137.  

11. Bartolomeo Paganelli, Vita et Miracoli del glorioso P.S. Girolamo dottore di S. Chiesa..., In Firenze, Appresso Giorgio Marescotti, 1583,

12. Ibidem, pp. 204-205.

13. Si veda, a proposito della sua opera Bizzarrie Accademiche, il saggio Semi Simbolici.

14. Nel 1627 il letterato Tommaso Stigliani diede alle stampe il suo Occhiale in cui espose doviziosamente i presunti errori e i difetti dell’Adone di Giovan Battista Marino, colpevole, secondo lo Stigliani, di aver rubato parole e concetti ad altri autori. Questa pubblicazione scatenò una delle polemiche letterarie più durevoli e appassionate di ogni tempo in Italia, dove si scontrarono con l’armi letterarie e critiche stiglianisti e antistiglianisti.

15. Novelle Amorose di Gio: Francesco Loredano, Volume Quarto, Venetia, Appresso gli Guerigli, 1653, p. 556.

16. Ibidem, p. 513.

17. Idem.

18. Ibidem, Libro Primo, pp. 153-154.

19. In realtà Cristo dovette per forza nascere in una grotta, simbolo del cosmo così come erano nati in un medesimo ambiente tutti gli Dei solari. Se fosse stato descritto nascere in una stalla nessuno avrebbe visto in ciò un’epifania divina.

20. Vita, Virtù e Miracoli di S. Camillo de Lellis, Già succintamente scritta dal P. Pantaleone Dolera, In Roma, Presso il Bernabò, e Lazzarini, 1746, pp. 9-10.

21. Vita di S. Camillo de Lellis, fondatore della Religione de Cherici Regolari. Ministri degl’Infermi, descritta dal P. Sanzio Cicatelli, Rivista ed accresciuta dal P. Pantaleone Dolera, Generali della Medesima Religione, Libro Primo, Capo II, In Palermo, Nella Stamperia di Francesco Valenza, 1774, p. 5.

22. Ibidem, Libro Primo, Capo III, p. 7.

23. Ristretto Cronologico della Vita di S. Camillo de Lellis, Roma, Coi Tipi della S.C. De Propaganda Fide, 1846, pp. 15-17.

24. Memorie Historiche del Venerabile P. Camillo de Lellis, E de’ suoi Chierici Regolari Ministri degli Infermi, Libri Quindici, Di Domenico Regi della Medesima Religione, In Napoli, Per Giacinto Passaro, 1676, pp. 359-361.

25. Cfr. Rui Viera Nery, Musica Antica, informazione storica e intuizione artistica, in "Francis Xavier - La Rotta d'Oriente", Alia Vox, 2007, p. 113. 

26. Vita di S. Francesco Saverio della Compagnia di Giesù Apostolo delle Indie, Descritta dal P. Giuseppe Massei della Medesima Compagnia, In Roma, Alle spese d’Ignazio de’ Lazzari, 1681, pp. 101-102.

27. Giambattista Corniani, I secoli della letteratura italiana dopo il suo risorgimento, Milano, Coi Tipi di Vincenzo Ferrario, 1833, p. 98.

28. Il Cristiano istruito nella sua Legge. Ragionamenti Morali dati in luce da Paolo Segneri della Compagnia di Gesù, Parte Terza, Tomo Secondo, In Bologna, Per Giulio Borzaghi, 1690, p. 355.

29. Il Giuoco di Fortuna overo il Bene, e ’l Male de’ Giuochi. Opera di Carlo Gregorio Rosignoli della Compagnia di Giesù, In Modona [Modena], Per Antonio Capponi, 1703. 

30. Ibidem, pp. 120-121.

31. Ibidem, p. 122.

32. Ibidem, pp. 122-123.

33. Ibidem, pp. 148-150.

34. PP. Minori Riformati (a cura), Opere Complete di S. Leonardo di Porto Maurizio..., Volume IV, Venezia, Tipografia Emiliana, 1868, p. 449.

35. La Santità e Pietà Trionfante in ogni Dignità, Conditione, e Stato, Parte Prima... Dedicata alla... Parte Seconda... Dedicata alla... Da Giovanni de’ Conti Fontana, Vescovo di Cesena, Parte Prima, In Venezia, Presso Andrea Poletti, 1716, p. 355.

36. Ibidem, p. 235.

37. Ibidem, pp. 334 - 335.

38. Si vedano  I Tarocchi in Letteratura II - III e Del MInchionare.   

39. Sull'avarizia quale vizio dei giocatori si veda Maladetta sie tu, antica lupa.

40. Il Giocatore, Commedia del Signor Avvocato Goldoni Veneziano, "Ai Lettori", In Bologna, Per gli Eredi di Costantino Pisarri, e Giacomo Filippo Primodì, 1754, p. 3.

41. Ibidem, p. 6.

42. Decisioni di casi di Coscienza e di Dottrina Canonica ovvero Corso di Teologia Morale... del Padre Faustino Scarpazza Domenicano Professore di Sacra Teologia..., Tomo X, Roma, Nella Stamperia Caetani sul Colle Esquilino, Ad istanza, e spese di Francesco Alessandri, Libraro in Firenze, 1804, pp. 103-104 

43. Ibidem, pp. 105-106.

44. Il veneziano Paolo Sarpi (1552-1623) dotto in teologia, astronomia, matematica, fisica, anatomia e letteratura, divenne celebre soprattutto per l’Istoria del Concilio tridentino, opera posta dalla Chiesa nel novero dei Libri Proibiti. Si schierò contro la Chiesa Cattolica prendendo le difese della Repubblica Veneta colpita con interdetto da Paolo V. Rifiutatosi di comparire di fronte alla Sacra Inquisizione a Roma per essere processato, fu vittima di un attentato seppur non mortale, la cui responsabilità venne attribuita alla Chiesa. 

45. Luigi Capranica, Fra Paolo Sarpi, Volume Primo, Milano, Francesco Sanvito, 1863, pp. 115-119.

46. Per una correlazione con questo saggio si veda Della Passione del Gioco (Carattere e ritratto del giocatore nella Francia e nell'Italia del XIX secolo).

 

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