Saggi Storici sui Tarocchi di Andrea Vitali

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I Tarocchi nel 'Baldus' di Teofilo Folengo - 1517

In un’invettiva contro il male agire degli uomini

 

Andrea Vitali, novembre 2022

 

 

Il Baldus di Teofilo Folengo risulta di interesse per un verso in cui vengono citati i tarocchi. Poiché il verso in questione, seppur conosciuto da tempo dagli storici dell’argomento, è sempre stato riportato da questi senza che fosse inquadrato nel contesto del poema, ci è parso utile descrivere l’argomento del Baldus al fine di spiegare il verso nell’ambito della trama.

 

Gerolamo Folengo più conosciuto come Teofilo Folengo e con gli pseudonimi Merlin Cocai o CoccajoLimerno Pitocco e Perlone Zipoli (Mantova 1491 - Bassano 1544) nacque a Mantova dal notaio Federico appartenente a un’antica famiglia mantovana legata ai Gonzaga e da Paola Ghisi, erede di una facoltosa famiglia mercantile. “Lo stemma dei Folengo con tre folaghe nere in campo giallo esprime con immediatezza una caratteristica spirituale della famiglia: il forte legame con una realtà specifica di acque e terra, animali, lavoro. Questa realtà è l’istanza espressiva fondamentale della poesia maccheronica. Al retaggio della famiglia appartiene anche il gusto degli studi grammaticali e retorici [...]. All’influenza di Vittorino da Feltre e alla sua pietas austera, segnata da una vena d’ ascetismo laico, va ricondotto il terzo elemento che caratterizza la famiglia Folengo: la sensibilità religiosa. Sei figli del notaio Federico appartennero all’Ordine benedettino e uno, Silvestro, fu monaco agostiniano” 1.

 

Gerolamo entrò come postulante nel monastero di S. Eufemia a Brescia pronunciando i voti il 24 giugno del 1509 assumendo il nome di Teofilo. In seguito, studiò filosofia, diritto canonico, logica e teologia. La sua ispirazione per la poesia maccheronica gli derivò dall’essersi trasferito a S. Giustina di Padova. Infatti, l’ambiente padovano godeva di una tradizione maccheronica iniziata con la Macaronea di Tisi Odasi. Si tratta di una letteratura dove il dotto latino viene deformato attraverso l’inserimento di termini volgari tratti dal dialetto e dal parlare quotidiano. Nelle sue opere Teofilo venne  influenzato dal filosofo Pietro Pomponazzi - come ci ricorda nella Zitonella e nel Baldus fingendosi suo distratto scolaro – il quale “abilmente mescolava, a fini espressivi, latino, volgare e dialetto, termini colti ed espressioni idiomatiche, lessico filosofico e detti triviali” 2.

 

Nel 1517 venne pubblicata per i tipi di “Alexandri Paganini” la prima edizione delle sue Maccheronee dal titolo Merlini Cocai poëta e Mantuani Liber Macaronices comprendenti due egloghe e il poema Baldus in 17 libri di esametri. Folengo intese far nascere Merlin Cocai, quasi si trattasse di un nuovo poeta, da Cipada, il borgo antistante la virgiliana Pietole. Come Platone, che la leggenda riferisce nutrito da uno sciame d’api, così Merlin era ben nutrito da una merla che gli portava ogni giorno il cibo nella culla, e ad allevarlo fu Cocaio ovvero “tappo della botte”. Un nome che già denuncia l’origine contadina dell’autore.

 

L’Opus macaronicum è composto dalla Zanitonella, sive innamoramentum Zaninae et Tonelli, narrazione dell’amore non corrisposto di Zani per Tonella; dal Baldus, in esametri sulle avventure di Baldo, discendente di Rinaldo, poema che ebbe una forte ascendenza sull’opera di Rabelais; dalla Moschaea (Moscheide), poema eroicomico sulla guerra fra le mosche e le formichee e  dall’Epigramata, serie di epigrammiDopo quattro anni, Folengo diede alle stampe la seconda edizione dell’Opus con il nome di Toscolana e fra il 1539 e il 1540 uscì la terza chiamata Cipadense, considerata la migliore fra tutte. Infine, la quarta e ultima edizione uscì postuma nel 1552 chiamata la Vigasio Cocaio dallo pseudonimo del curatore. Le quattro edizioni variano fra loro per cui è necessario considerarle distinte fra loro 3.

 

Il poeta compose anche opere in italiano: il Chaos del Tri per Uno (1527) 4, Orlandino (1526), Humanità del figlio di Dio (1533), Atto della Pinta (1538) e Palermitana (1540).

 

Il Baldus è un poema eroico-parodistico narrante le avventure di Baldo, descritto come un eroe dalla fama smisurata, tanto che il solo suo nome fa tremare la terra e l’udirlo il “baratrum” (baratro) infernale sibi cagat adossum, cioè per il terrore se la fa addosso. Possiede due spalle larghe, il petto rilevato e possente ma ha i fianchi così sottili che una breve cintura lo cinghia. Tutto nervi nelle gambe, corto di piede, asciutto di stinche, cammina diritto come un fuso e di passo lieve.

 

Il proemio rifà il verso a quelli famosi dei poemi epici-cavallereschi del Quattro e Cinquecento, laddove il Folengo chiede alle Muse l’ispirazione necessaria. Non si tratta tuttavia, come ci si potrebbe aspettare, di Melpomene, musa della tragedia e di Talia, musa della commedia chiamata fra l’altro dal poeta “menchiona”, considerate non adatte alla “piva” dell’autore, ancorchè di Apollo (Phoebus) dio della poesia e della musica, descritto a strimpellare la "chitarrina" (grattans chitarrinum), ma delle "Pancificae tantum Musae, doctaeque sorellae” (Muse pancifiche, le dotte sorelle) a cui il poeta chiede che lo imbocchino di maccheroni e gli portino cinque o otto catini di polenta. Chi sono in realtà queste Muse? Intanto i loro nomi: Gosa, Comina, Striace, Mafelina, Togna, Pedrala, nomi che evocano caratteristiche proprie dei contadini della Val Padana da cui Folengo era originario: Gosa, da ‘gozzuto’; Striax, da ‘strega’, e così via.  "Queste sono quelle dee grasse, quelle ninfe sgocciolanti, la cui dimora, la cui regione e territorio son racchiusi in un angolo remoto del mondo, che le caravelle spagnole non hanno ancora scoperto" (Hae sunt divae illae grassae, nymphaeque colantes, / albergum quarum, regio, propiusque terenus / clauditur in quodam mundi cantone remosso, / quem spagnolorum nondum garavella catavit). Esse vivono in un luogo descritto come il paese di Cuccagna, dove il brodo scorre a fiumi formando un lago di “guazzetto” e le montagne sono fatte di formaggio da cui cadono grossi gnocchi, a ingoiare i quali conviene allargare la bocca (O quantum largas opus est slargare ganassas). Un paese di bengodi a tutti gli effetti!

 

Da quanto succintamente descritto si evince che questi versi - composti in esametri latini non sempre perfetti con espressioni gergali e popolari - si pongono in completa antitesi con quelli della tradizione dei poemi epico-cavallereschi dei secoli XV-XVI, evidenziando il carattere burlesco e parodistico dell'intero poema, dove troviamo Baldo, il protagonista, discendere dalla stirpe del cavaliere Rinaldo, allevato dapprima da contadini e in seguito entrato a far parte di una banda di furfanti e ladroni.

 

Augurandoci di avere stimolato la lettura completa del Proemio, lo riportiamo (I - vv. 1-63), facendolo precedere dalla sua traduzione:

 

Traduzione

 

“Mi è venuta l'ispirazione più che bizzarra di cantare la storia di Baldo, con l'aiuto delle grasse Camene. La sua fama e il suo nome gagliardo fan tremare la terra, e al sentirlo l'inferno se la fa addosso dalla paura. Ma prima mi occorre invocare il vostro aiuto, o Muse che effondete l'arte maccheronica. Potrebbe forse la mia barchetta superare gli scogli del mare, se non sarà raccomandata dal vostro aiuto?
Mi dettino i versi non Melpomene, non quella minchiona di Talia, non Febo che strimpella la chitarrina; infatti, quando penso alle budella della mia pancia, le chiacchiere del Parnaso non sono adatte alla nostra zampogna.
Solo le Muse pancifiche, le dotte sorelle (Gosa, Comina, Striace, Mafelina, Togna, Pedrala) vengano ad imboccare di maccheroni il poeta, e gli diano cinque o otto catini di polenta.
Queste sono quelle dee grasse, quelle ninfe sgocciolanti, la cui dimora, la cui regione e territorio son racchiusi in un angolo remoto del mondo, che le caravelle spagnole non hanno ancora scoperto.
Qui si leva una alta montagna sino alle scarpe della Luna, e se qualcuno la paragonasse allo smisurato Olimpo potrebbe definire quest'ultimo una collinetta piuttosto che un monte. Qui non ci sono le cime del Caucaso, non c'è la schiena del Marocco, l'Etna non erutta bruciori di zolfo; le montagne bergamasche non ricavano da qui le pietre rotonde [le macine] che si vedono ruotare nel mulino a macinare la biada: ma per di là abbiamo varcato Alpi fatte di formaggio tenero, duro, mezzo stagionato.
Credete, ve lo giuro, non potrei dire una sola bugia per quanti tesori nasconda la terra: laggiù scorrono a valle profondi fiumi di brodo, che formano un lago di zuppa, un oceano di guazzetto.
Qui si vedono andare e tornare mille zattere fatte di torta, barche e brigantini leggeri, sui quali le Muse usano lacci e reti, reti fatte di salsicce e cucite con le busecche dei vitelli, con cui pescano gnocchi, frittelle e tome gialle.
Tuttavia il tempo è oscuro quando quel lago è in tempesta e con le sue onde sollevate bagna i soffitti del cielo. Non scateni certo simili bufere, o lago di Garda, quando i venti soffiano intorno alle rovine di Catullo [a Sirmione]. Qui ci sono coste fatte di fresco e tenero burro, in cui cento caldaie fumano sino alle nuvole, piene di tortelli, di maccheroni e di tagliatelle.
Le stesse Ninfe abitano sulle cime dell'alto monte, e grattano il formaggio con le grattugie forate. Altre sollecitano a produrre i teneri gnocchi, che rotolano giù a frotte tra il formaggio grattugiato, e si rivoltano dalla vetta del monte diventando grossi come botti panciute.
Oh, come devi allargare le già larghe ganasce, quando vuoi riempirti la pancia con tanti gnocchi! Altre Ninfe tagliano a strisce la pasta, e le vedresti riempire cinquanta tegami di tagliatelle e di grosse lasagne.
E altre, mentre la padella borbotta sul fuoco alto, tirano da una parte i tizzoni e soffiano dentro, infatti per la fiamma eccessiva il brodo salta fuori dalla pentola. Insomma, ognuna cerca di cuocere la propria minestra, per cui si possono vedere mille camini fumanti, e mille pentole borbottano appese alle catene.
Qui io per primo pescai l'arte maccheronica, qui Mafelina mi fece diventare un poeta pancifico” 5.

 

Testo originale

 

Phantasia mihi plus quam phantastica venit
historiam Baldi grassis cantare Camoenis.
Altisonam cuius phamam, nomenque gaiardum
terra tremat, baratrumque metu sibi cagat adossum.
Sed prius altorium vestrum chiamare bisognat,
o macaroneam Musae quae funditis artem.
An poterit passare maris mea gundola scoios,
quam recomandatam non vester aiuttus habebit?
Non mihi Melpomene, mihi non menchiona Thalia,
non Phoebus grattans chitarrinum carmina dictent;
panzae namque meae quando ventralia penso,
non facit ad nostram Parnassi chiacchiara pivam.
Pancificae tantum Musae, doctaeque sorellae,
Gosa, Comina, Striax, Mafelinaque, Togna, Pedrala,
imboccare suum veniant macarone poëtam,
dentque polentarum vel quinque vel octo cadinos.
Hae sunt divae illae grassae, nymphaeque colantes,
albergum quarum, regio, propiusque terenus
clauditur in quodam mundi cantone remosso,
quem spagnolorum nondum garavella catavit.
Grandis ibi ad scarpas lunae montagna levatur,
quam smisurato si quis paragonat Olympo
collinam potius quam montem dicat Olympum.
Non ibi caucaseae cornae, non schena Marocchi,
non solpharinos spudans mons Aetna brusores,
Bergama non petras cavat hinc montagna rodondas,
quas pirlare vides blavam masinante molino:
at nos de tenero, de duro, deque mezano
formaio factas illinc passavimus Alpes.
Credite, quod giuro, neque solam dire bosiam
possem, per quantos abscondit terra tesoros:
illic ad bassum currunt cava flumina brodae,
quae lagum suppae generant, pelagumque guacetti.
Hic de materia tortarum mille videntur
ire redire rates, barchae, grippique ladini,
in quibus exercent lazzos et retia Musae,
retia salsizzis, vitulique cusita busecchis,
piscantes gnoccos, fritolas, gialdasque tomaclas.
Res tamen obscura est, quando lagus ille travaiat,
turbatisque undis coeli solaria bagnat.
Non tantum menas, lacus o de Garda, bagordum,
quando cridant venti circum casamenta Catulli.
Sunt ibi costerae freschi, tenerique botiri
in quibus ad nubes fumant caldaria centum,
plena casoncellis, macaronibus atque foiadis.
Ipsae habitant Nymphae super alti montis aguzzum,
formaiumque tridant gratarolibus usque foratis.
Sollicitant altrae teneros componere gnoccos,
qui per formaium rigolant infrotta tridatum,
seque revoltantes de zuffo montis abassum
deventant veluti grosso ventramine buttae.
O quantum largas opus est slargare ganassas,
quando velis tanto ventronem pascere gnocco!
Squarzantes aliae pastam, cinquanta lavezzos
pampardis videas, grassisque implere lasagnis.
Atque altrae, nimio dum brontolat igne padella,
stizzones dabanda tirant, sofiantque dedentrum,
namque fogo multo saltat brodus extra pignattam.
Tandem quaeque suam tendunt compire menestram,
unde videre datur fumantes mille caminos,
milleque barbottant caldaria picca cadenis.
Hic macaronescam pescavi primior artem,
hic me pancificum fecit Mafelina poëtam.

 

Dopo questa invocazione alle Muse, il poema si apre con la storia d'amore dei genitori di Baldo - Guidone da Montalbano, discendente di Rinaldo, e Baldovina, figlia del re di Francia – i quali, arrivati nel mantovano dopo numerose vicissitudini, vengono accolti da Berto Panada, un contadino del luogo. Il quieto e umile vivere agreste che reca loro grande felicità, li fanno decidere di far crescere il figlio in quel luogo. Baldo fin da giovanissimo, scontrandosi con i suoi simili di Mantova, dimostrò la sua indole futura. Ben presto, infatti, il giovane, pur mosso dal desiderio di portare ordine nelle ingiustizie del mondo, diventa egli stesso il primo autore di angherie e soprusi, soprattutto ai danni di Tognazzo, podestà del paese, e di Zambello, figlio del contadino che aveva accolto i suoi genitori. Una volta entrato a far parte della banda dei briganti, Baldo vivrà vicende eroiche e meschine accompagnate da violenti combattimenti. Con queste l’autore intese satireggiare con durezza la società del suo tempo, dove il potere spadroneggiava e la religione era assente. La scena è il mondo contadino, un mondo intriso di materialità, di rapporti corporali, di pantagrueliche abbuffate di cibo, dove non trova spazio alcun sentimento. Il contadino delle egloghe vive di bisogni primari dove l’amore è istinto e necessità assieme, pronto per questo ad azzuffarsi fino a uccidere e a tradire. Per il villano del Folengo non esistono valori.

 

I suoi compagni di avventure sono il gigante Fracasso (personaggio della Commedia dell’Arte), Falchetto (mezzo uomo e mezzo cane) e Cingar, per i quali ogni occasione è propizia per imbrogli e truffe. Nulla servirà per far recedere Baldo dalle sue azioni, anche quando verrà imprigionato per aver ucciso il caporione di Cipada, suo paese natale, per poi essere liberato grazie a un imbroglio dal fido Cingar.  Dopo essersi imbarcato a Chioggia, la sua nave subisce un naufragio facendolo approdare su uno scoglio. Vista una grotta si addentrò in essa. Qui, sotto l’imperio di Mercurio, schiavi lavoravano i metalli vili tramite alambicchi per trasmutarli in oro e argento. Nella grotta Baldo incontra una leggiadra dama di nome Manto (un omaggio alla città dei Gonzaga il cui nome viene fatto derivare da quello della dama) che con lusinghe lo dichiara il guerriero più prode esistente al mondo, per poi esprimere in cosa consista la saggezza:

 

“Avere sempre la borsa gonfia di ducati, la qual cosa

Più importa e reca alto onore che star lì a rompersi la

Testa sui libri e a perdere il cervello a studiare le stelle”

 

Si tratta di una satira contro l’ignoranza come troviamo in Tommaso Garzoni quando nella sua La Sinagoga degli Ignoranti scrive:

 

“Il primo fomento adunque della ignoranza non è altro, che il piacere, et la sensualità: del corpo, la quale con dolci lusinghe tiene inveschiato quest'huomo in modo, che non può occuparsi ne' studi, per farsi da qualche cosa, ponendogli in horrore le fatiche, et i sudori, che bisogna patire, per fare acquisto delle scienze; dove che allettato, e fomentato da questa morbidezza, l'ignorante rifiuta di darsi alla lettura d'alcun libro,  et si dà in preda all'otio, & à i piaceri totalmente, sprezzando le scienze a quella guisa, che fa l'asino il suono della cetra, ò della lira” 6.  

 

Fra le altre innumerevoli avventure, a un certo punto vediamo Baldo cimentarsi in una evocazione diabolica notturna con tanto cerchio di fuoco e l’ausilio di una strega. L’operazione non fa altro che far giungere una turba di diavoletti che creano alquanta confusione. Infine, Baldo precipita all’Inferno, popolato “da tante streghe quante sono le mosche che genera l’arida Puglia” e di prostitute. Verso quest’ultime Baldo assume un atteggiamento di un moralista, ma è solo apparenza dato che il Folengo, nel volere Baldo perdonare gli amori furtivi, gli mette in bocca i seguenti versi “chè una colpa è mezzo perdonata se sotto coltre si mantien celata”.

In questo luogo infernale Baldo finisce in un'immensa zucca vuota dove sono puniti i bugiardi. Al suo interno si ritrova assieme a “poeti, cantastorie e astrologhi, che inventano, cantano, indovinano i sogni della gente e hanno i loro libri di fole e cose vane” ma anche in compagnia di Merlin Cocai (il poeta), di Omero e Virgilio a voler dimostrare come tra i poeti epici e quelli maccheronici non esistesse alcuna differenza.

La situazione in cui si trova il verso dove sono citati i tarocchi assieme ad altri due giochi di carte, vede nell’edizione Toscolana un'invettiva del podestà Tognazzo contro le femmine, in difesa delle quali Berta, una villanella rapita e poi sposata da Baldo, prende la parola decantando le dolcezze della vita coniugale e le benemerenze della donna nel disbrigo delle faccende domestiche. Prosegue affermando che la casa dove mano di donna non provveda all'assetto di ogni cosa è una casa sconsolata. Non si limita a difendere il suo sesso, ma ritorce biasimi e accuse contro gli uomini che ne fanno d'ogni colore e danno quasi soli il più spaventevole contingente alla criminalità. L'uomo consuma le notti nelle taverne, a giocarsi fin la camicia Sive sbaraino, seu cricca, sive tarocco, mentre la donna in casa stenta e lavora.

 

Alla traduzione faremo seguire il testo originale (vv. 450-500) 7

 

Traduzione

 

Ah, barba mio, chi mangia troppo alla fine crepa. È davvero sconsolata e piena di tristezza la casa nella quale nessuna donna tiene in ordine la roba. Se la donna non concedesse mai al maschio quella porta che deve concedere, il mondo, senza gente, che sarebbe? non sembrerebbe una stalla senza asini e senza porci? Il maschio non sopporta il rischio di morire nel partorire; se ne va senza pensiero dei figli, della moglie, anzi senza cura di sé stesso e della propria famiglia; l’infingardo se ne va a spasso divertendosi e se poi la moglie, povera femmina, se qualche volta sbaglia e cade supina, quale meraviglia? Non può star dritta, avendo il calcagno rotondo. Nulla di più instabile, nulla di più tenerino, nulla di più cascabile di lei ha fatto la natura sulla terra. Ma l’uomo che si ritiene una razza collaudata, matura, una persona ponderata e piena di razionalità, dalle cui larghe costole è uscita la donna, oh! Dio! quali gaglioffaggini non commette! Non un bue, non un asino, non una bestia matta qualsiasi per mille razioni di cibo vorrebbe fare quello che lui fa. Dite, in fede vostra, ditemi la verità di quanti ladri si impiccano in tutto il mondo, di quante lingue, oppure occhi, di quante orecchie di uomini malvagi si macellano secondo giustizia, nel loro numero, dico, c’è forse una sola donnicciola? Se proprio ve ne sono alcune, le potete contare sulla punta del naso. La donna non sta notti intere, bestemmiando il cielo e invocando il diavolo, a giocare e a perdere soldi, a perdere il mantello, la camicia, a perdere le brache allo sbaraglino, o alla cricca, o ai tarocchi. La donna non se ne sta nei boschi, non deruba, non ammazza, ladra, i viandanti; lei non frequenta il Palazzo peggiore dei boschi, per rubare, strozzare, imbrogliare, scorticare gli orfani indifesi e le povere vedove. La donna non ciba di carne uccellacci rapaci, di zuppe i bracchi, non di pane bianco i levrieri, quando sente un povero affamato e stracciato battere la porta e chiedere un pezzetto di pane, non dice: «Vai in pace e non rompere la porta». La donna non stupra i fanciulli, non violenta le fanciulle, non dà usura, non scala di notte le finestre, non pratica alchimia dannosa e non tosa le monete (1), non rapina le cose altrui seguendo l’esercito. Queste sono le imprese lodevoli, le cose sante, sono le grandi gesta dell’uomo, al quale solamente la Somma Potenza ha dato il cuore sublime, ha dato l’essere e ha dato lo sguardo d’ingegno, un senno grave, una salda razionalità! O sfacciati senza vergogna, o sporca semenza! Andate lupi e porci, cani ed asini, cavalli; infatti lupi e porci, cani e asini, cavalli non uomini ed esseri razionali vi si deve chiamare.

 

(1)  Non... tosatque monetam = allude all’espediente di limare le monete per asportarne parte del metallo pregiato.

 

Testo originale

 

Ah mi barba, nimis qui mangiat denique creppat

Sconsolata quidem domus est et plena gramezzae,

in qua nulla tenet dacattum foemina robbam.

Foemina si maschio nunquam concederet illam

quam debet portam, mundus sine gente quid esset?

nonne sine asinis et porcis stalla pareret?

Non maschius tolerat pariendo mortis arisgum,

it sine pensero natorum, et coniugis, immo

absque sui stessi cura propriaeque fameiae;

itque solazzando ad spassum poltronus, et uxor

foemina si fallat quandoque caditque supina

quae maraveia? Nequit calcagno sistere tondo:

qua nil mobilius, qua nil tenerinius, et qua

nil cascabilius terris natura tapavit.

Ast homo, qui reputat sese genus esse provatum,

maturumque, gravemque virum plenumque rasonis,

de cuius larghis egressa est foemina costis,

proh Deus! impresas quas non facit ille gaioffas?

Non bos, non asinus, non quaevis bestia matta,

fare quod ipse facit vellet per mille prevendas.

Dicite; per vostramque fidem, mihi dicite verum:

de quantis toto ladris piccantur in orbe,

de quantis linguis, aut occhis, de quot orecchis

beccariae hominum faciuntur iure malorum,

nunquid in ipsorum numero muliercula sola est?

Aut si sunt aliquae, naso numerare potestis.

Foemina non, coelum renegans, chiamansque diablum,

noctibus integris stat ludens perdere scudos,

perdere mantellum, camisam, perdere bragam,

sive sbaraino, seu cricca, sive tarocco.

Foemina non habitat boscos, non spoiat, amazzat

ladra viandantes, non praticat illa palazzum

peiorem boschis, ut robbet, strazzet, abarret,

scortighet orphanulos nudos, viduasque tapinas.

Foemina non cibat osellazzos carne rapaces,

non suppis braccos, non blanco pane levreros;

non quando sentit portam chioccare famatum

strazzosumque inopem, panisque rogare tochellum:

«Vade", ait, "in pacem, nec voias frangere portam».

Foemina non stuprat pueros, sforzatque puellas,

non dat ad usuram, non scalat nocte fenestras,

non facit alchimiam falsam, tosatque monetam,

non seguitans campum quae sunt aliena rapinat.

Hae sunt impresae dignae, sanctaeque facendae,

sunt bene gesta viri, cui summa potentia soli

cor sublime dedit, dedit esse, deditque vedutam

ingenii, sennumque gravem, saldamque rasonem.

O sine vergogna sfazzati, o lorda somenza;

ite lupi, porcique, canes, asinique, cavalli;

namque lupos, porcosque, canes, asinosque, cavallos,

non homines vos dire licet formasque rasonis.

 

Note

 

1.  Angela Piscini, Teofilo Folengo, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, Volume 48, Treccani, 1997.

2. Ivi.

3. Ad esempio, riguardo le egloghe VI e VII Alessandro Luzio scrive: “Le due egloghe come indipendenti affatto, erano già nella Paganini del 1517, e il Folengo, accodandole nella Toscolana alla Zanitonella, le ha al suo solito profondamente rimaneggiate: un brano della seconda fu addirittura trasportato nel Baldo. È cioè la descrizione umoristica che fa Tonello delle bellezze di sua moglie: e nel libro IV delle Maccheroniche quelle stesse amene lodi sono messe in bocca a Tognazzo. Nella prima redazione di quell'egloga Tonello si abbandona interamente alla piena del suo dolore per l'estinta consorte, mentre nella Toscolana preferisce annegare i suoi dispiaceri nel vino”. Alessandro Luzio, Studi Folenghiani, in “Biblioteca Critica della Letteratura Italiana” diretta da Francesco Torraca, In Firenze, G.C. Sansoni, Editore, 1899, p. 19

4.  Si veda I Tarocchi in Letteratura I.

5. Per la traduzione ci siamo valsi di quella presente online al sito “Letteratura Italiana” al link

https://letteritaliana.weebly.com/il-proemio-del-baldus.htm

6. La Sinagoga de gl’Ignoranti, Nuovamente formata, et posta in luce da Tomaso Garzoni da Bagnacavallo, Academico Informe di Ravenna, Per ancora  Innominato, In Venetia, Appresso Gio. Battista Somasco, M.D.LXXXIX [1589]. Discorso Quinto: Quante cose fomentano l’Ignoranza, p. 68.

7. Per il testo e la traduzione ci siamo riferiti al Baldus del Folengo a cura di Mario Chiesa, Volume Primo, Torino, UTET, 2006 (Prima ed. 1997), pp. 302-305.

 

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