Saggi Storici sui Tarocchi di Andrea Vitali

Saggi dei Soci e Saggi Ospiti

I Labirinti della Ragione

Omaggio a Cecilia Gatto Trocchi

 

di Cecilia Gatto Trocchi


In memoria della cara amica Cecilia Gatto Trocchi, in vita componente della nostra Associazione e docente di Antropologia Culturale, con la quale Andrea Vitali ebbe il privilegio di lavorare chiamandola a far parte del comitato scientifico della mostra Le Carte di Corte. I Tarocchi. Gioco e Magia alla Corte degli Estensi (Castello Estense, Ferrara, ottobre 1987 - febbraio 1988), si riporta il suo saggio I Labirinti della Ragione incluso nel catalogo della mostra.


Al di là della passione e del rischio del gioco, le carte rappresentano fondamentalmente un “mistero”:  esse costringono a confrontarsi con il destino in una sfida alla Fortuna che richiama le iniziazioni rituali. “Forzare” la mano al destino è un'aspirazione umana millenaria e per­turbante: chi non rammenta le tentazioni della Dama di Picche e la rovi­na del giocatore Hermann? I Tarocchi, con i loro enigmatici Trionfi, sono la rappresentazione più affascinante di questo gioco col destino.

 
Nati nell'Italia delle corti -  di cui quella degli Estensi rappresenta un esempio tra i più eleganti -  i Tarocchi già nel sec. XV avevano assunto la struttura di 78 carte in cui comparivano sia gli “Arcani maggiori” o Trionfi, sia quattro serie numerali - dall'uno al quattordici - contrasse­gnate dai semi di denari, coppe, spade, bastoni. Il prototipo originario ebbe in Italia diverse varianti: i tre grandi centri che fecero “scuola” fu­rono Milano, Ferrara, Bologna. È noto che a Ferrara la presenza di “carte da Trionfi” è testimoniata dal 1442 ed è altresì testimoniata la sua connotazione di corte. Dello stesso periodo è l'affresco della Casa Borromeo di Milano che rappresenta giocatori di carte.

 

La storia delle corti si arresta qui: i Tarocchi dalla meta del XVI seco­lo diventano “popolari”, si moltiplicano e si diffondono in tutta Euro­pa, attraverso la mediazione francese. Le allegorie originarie degli ano­nimi artisti rinascimentali si sono tramandate (pur con minime varian­ti) fino ai giorni nostri e quelle icone simboliche dei Trionfi, che per noi spesso rappresentano misteriosi enigmi, dovevano essere assai fa­miliari ai raffinati giocatori ritratti nell'affresco di Casa Borromeo: il si­gnificato di ogni ‘Arcano' doveva essere ai loro occhi immediato ed “edificante”. Per noi, invece, il messaggio referenziale e il contesto delle icone significanti che costituiscono il corteo dei Trionfi non’ più dato per scontato. Tra le belle immagini e il loro senso si è determinata una zona d'ombra, dove è andata a collocarsi l’ala del mistero. Non sor­prendono quindi le fantasticherie degli occultisti, né le libere associa­zioni arbitrarie dei cartomanti.

 

Gli 'Arcani' sono lì, ognuno collocato in una “stanza” mentale, sereno luogo del passato in cui l'allegoria e il simbolo, resi ai nostri occhi in­visibili, tessono fili di concordanze che solo l'immaginazione può rin­tracciare. L'invenzione fa parte del gioco, anzi, è il gioco stesso, la sua anima. Il corteo dei Trionfi può allora svelare significati nascosti, arbi­trari, come quelli decodificati da Sigmund Freud (famoso giocatore di Tarocchi) nei sogni dei nevrotici e nei suoi stessi sogni. Il doppio gioco dell'immaginario ci porta verso il profondo pozzo del passato, da un lato, e dall'altro verso le nostre interne, personali costellazioni di imma­gini.

 

Già per Plotino la conoscenza attraverso le immagini mette la mente umana  “direttamente” a contatto con le verità più profonde. Così si esprime il filosofo neoplatonico analizzando la forma superiore di conoscenza: «Non si deve credere che nel mondo intellegibile gli dei e i beati vedano proposizioni: ciò che colà è espresso è una bella immagi­ne” (1). Le “belle immagini” o meglio le immagini enigmatiche, miste­riose, fantastiche, rispecchiano secondo Plotino quell'antica sapienza di ispirazione divina che discendeva da Adamo, il progenitore che ne era in possesso prima della cacciata dal Paradiso terrestre. Da tale convin­zione deriva l'assioma che i simboli non siano convenzionali: non esi­ste un significato univoco del simbolo, ma la sua interpretazione è la­sciata all'intuizione e all'ispirazione. In realtà, nell'essenza di un'im­magine simbolica è racchiusa una rivelazione. Ogni suo aspetto si per­cepisce carico di una ricchezza di significati che non possono essere ap­presi, ma solo scoperti nel processo di contemplazione che il simbolo è destinato a provocare. Secondo i neo-platonici, le cui dottrine erano in gran voga nel Rinascimento, lo sperimentare simultaneamente una se­rie di significati diversi (che vengono suggeriti allo spirito quando si contempla un'immagine enigmatica) diviene qualcosa di molto simile al modo di apprendere delle intelligenze superiori. Pur mantenendo le distanze dalle tesi neo-platoniche, va detto che nella moderna semiolo­gia il simbolo, in quanto “segno aperto” possiede ancora le caratteristi­che della “bella immagine” cioè di un'icona portatrice di una pluralità di significati diversi.

 

Come giustamente rivela il Gombrich, di fronte alle immagini sim­boliche si può essere platonici o aristotelici. La tradizione aristotelica analizza i simboli partendo dalla teoria della metafora, cioè del “parlar figurato” per poi arrivare alle rappresentazioni visive (2). Una volta sco­perta la metafora fondamentale, ad esempio la figura di Ercole per rap­presentare la Forza, la tradizione razionalistica aristotelica approfondi­sce il concerto astratto di “forza” e ne studia le associazioni metafori­che. La teoria della metafora permette di esercitare una chiara distin­zione tra rappresentazione e simbolizzazione: come una figura può rappresentare una realtà del mondo visibile, un uomo che combatte un leone può contemporaneamente simboleggiare l’idea astratta della for­za indomabile di un eroe divino. Proprio dall'ambito delle associazioni metaforiche razionalmente ricostruite il senso trabocca dall'icona e po­ne altre domande. Chi era Ercole? E chi soprattutto il leone che egli combatte? Il percorso metaforico ci porta negli abissi dell'Ade da cui il leone Nemeo era uscito.

 

Tutti i racconti riferiti al leone sconfitto da Ercole connotano la bel­va come una creatura ctonia, simbolo a sua volta della morte. Ercole al­lora rappresenta qualcosa in più di un eroe  “forte”:  egli ha traversato i luoghi della morte senza essere distrutto... A questo punto è gioco­forza riallacciarsi alla tradizione platonica e neo-platonica secondo la quale il simbolo è visto come un misterioso messaggio divino.

 

A questa tradizione si riallaccia Friederich Creuser quando afferma che: “È proprio grazie alla sovrabbondanza di contenuto rispetto alla sua espressio­ne che il simbolo diviene significativo ed esaltante ...Il contatto con il simbolo è un momento che impegna tutto il nostro essere, la visione di un'infinita distanza da cui il nostro spirito viene arricchito. Infatti, que­sta istantaneità agisce sulla fantasia ricettiva, mentre la nostra ragione prova un intenso piacere nell'analizzare l'insieme che l'immagine con­cisa concentra in un solo istante ... Il simbolo sembra espandersi per di­ventare illimitato e infinito ... In questo sforzo non si accontenta di dire "molto": vuole dire tutto, desidera comprendere in sé l'incommensu­rabile(3). La valorizzazione delle immagini sottolinea l'inadeguatezza del linguaggio discorsivo che è sempre costretto ad attenersi ad un solo pensiero per volta. La sua natura lo rende inadatto alla percezione di­retta della verità e all'ineffabile intensità della visione mistica. D'altro canto la tradizione aristotelica è portata a considerare le categorie del linguaggio come preminenti, anzi come “categorie del mondo”.  Solo apprendendo il potere della parola possiamo imparare anche a com­prendere lo sviluppo di quei sistemi alternativi della metafora che ci conducono, vuoi in compagnia di Aristotele, vuoi in compagnia di Pla­tone, nel cuore stesso del pensiero e dei mondi simbolici.

 

Contemplando i Trionfi dei Tarocchi si coglie intuitivamente la for­za e la potenza del pensiero simbolico. Il simbolo non appartiene all' ordine del reale ma a quello del pensiero: esprime il significato primitivo e totalizzante che l'uomo ha dato al cosmo in un preciso momento della sua preistoria. In seguito a una trasformazione (che forse un giorno antropologia, biologia e psicologia riusciranno a descrivere) si è verifi­cata per la specie umana una mutazione da uno stadio in cui nulla ha un senso, ad un altro in cui ogni cosa ne possiede uno. L'universo ha quin­di avuto un  “significato” molto prima che si sapesse scientificamente come fosse composto e strutturato. Secondo i semiologi l'umanità ha posseduto, fin dalla sua origine, una integralità di `significante' che ha dovuto in qualche modo conferire alla realtà, dandole `significato' ... Adamo vide sfilare gli animali creati e dette a ognuno un nome “e quel nome era giusto rileva la Genesi. Nel suo sforzo di comprendere il mondo, l'uomo dispone di un'eccedenza di `significato' che ripartisce tra le cose secondo le leggi del pensiero simbolico. Tale pensiero si esercita in una sfera chiamata del “significato fluttuante”.

 

Cosi si spie­gano le contraddizioni e le antinomie del pensiero simbolico, che può esprimere simultaneamente nozioni differenti come forza e azione, qualità e stato, aggettivo e verbo, astratto e concreto, onnipresente e lo­calizzato. Con tali premesse si chiarisce ciò che la tradizione antica intendeva per “ Cosmo”. Esso non era solo l'Universo costituito dal cielo e dalla terra, dalle acque e dalle costellazioni. Si trattava di un unico, vasto si­sterna di rapporti simbolici, di ingranaggi che a loro volta comprendevano altri ingranaggi enormemente intricati nei loro collegamenti. I loro attributi erano la varietà, l'eternità e la ricorrenza.

 

Il Cosmo è stato descritto dalla mitologia, da racconti spesso incoerenti, misteriosi e biz­zarri che in un gioco di trasmutazioni tentano di dare senso all'uomo e all'Universo. Le storie mitiche sono tanto forti da essere sopravvissute nei secoli. Trasformate e deformate hanno continuato ad esistere mo­strando la forza e la tenacia della tradizione.

 

Se consideriamo la lamina v degli Arcani, il Papa, dobbiamo riconoscere sotto le vesti del capo della cristianità il Pontefice Massimo di Roma che a sua volta si collega all'arcaico pontifex, il costruttore di ponti, il dominatore magico delle acque e dei fiumi, colui che preparava la “strada” degli dei, librata sulle acque ... E l'Eremita con la clessidra e il bastone ha conservato i signifi­cati del dio-Tempo, Saturno-Cronos, e di tutte le sue funzioni. Nella complessa architettura rinascimentale dell'astrologia, il simbolo di Sa­turno-Cronos aveva funzioni precise: la contemplazione dell'immagi­ne di Saturno, correttamente impressa su un talismano, serviva a pro­lungare la vita.

 

La figura del Bagatto - inequivocabilmente legata alla magia - sugge­risce una vasta sfera di associazioni simboliche. Secondo i miti mediter­ranei che hanno costruito e stratificato il sapere collettivo legato alla magia, fu il dio egizio Thot che inventò la scrittura sacra (i geroglifici), le più potenti formule magiche e i talismani segreti. I Greci lo identifi­carono con Hermes, ambiguo e complesso personaggio divino, patrono dei ciarlatani e dei mercanti, ladro, incantatore e guida delle anime nel­le tenebrose regioni dell'Ade. Hermes fu il primo ad usare la bacchetta “magica”: il suo caduceo dorato era capace delle più mirabili trasfor­mazioni. Secondo la metodologia semiologica ogni interpretazione di un messaggio fa parte integrante del messaggio stesso: l'interpretazio­ne e una ri-semantizzazione della sfera significante del messaggio. Non esistendo una priorità storica del senso, per il semiologo il Bagatto con­tiene, nel segreto del suo sorriso, tutti i significati che la tradizione gli ha attribuito e anche i significati virtuali che il futuro vorrà regalargli. Si dissolve cosi l'idea della verità “una” : l'essenza di essa si colloca sem­pre nello spazio della “lettura” che è sì decifrazione di un senso già da­to, ma è al tempo stesso “creazione” di un senso nuovo. Metodo, que­sto, ben noto prima che ai semiologi, ai kabbalisti per i quali la Torah, la Bibbia, era un immenso, misterioso universo in cui era scritta la verità attraverso enigmi a cui solo l'ermeneutica poteva dare voce.

 

La prima lamina degli Arcani ci spalanca il mondo di Hermes, del dio-avventuriero notturno. Se leggiamo un qualunque testo divulgati­vo sui Tarocchi, troviamo, riferite al Mago, le seguenti parole: “Il Mago significa originalità e creatività, 1'abilita di usare le proprie capacità per portare a compimento un impegno prefissato. Destrezza, astuzia, dominio. Agilità di mano. Fraudolenza e inganno. Forza di suggestione” (4).

 

Non uno di questi attributi è fuori della sfera semantica di “Hermes”. Di essa fa parte oltre a fraudolenza, inganno e spudoratezza un'in­nocenza divina. Perché Hermes nulla ha a che fare con il peccato o con 1'espiazione. Ciò che porta con sé dalle sorgenti più profonde della sua essenza è una realtà grandiosa: l'innocenza del divenire. Il dio della mutevolezza mercuriale è il dio delle perenni trasformazioni. Chi non teme i pericoli delle più oscure profondità e delle vie nuovissime che Hermes è sempre pronto ad aprire, lo scelga come guida nell'universo magico dei Tarocchi e arrivi a scoperte più grandi e a conoscenze più sicure ...

 

Una guida è infatti necessaria, perché entrare nella sfera semantica degli `Arcani' spesso determina delle sorprese. Consideriamo il Trion­fo X, la Ruota della Fortuna. Se la Sorte poggia su una ruota o su una pie­tra rotonda in modo instabile, non può promettere che instabilità ai mortali. Eppure il moto della ruota è ciclico ed equilibrato: è  il simbolo dell'azione incessante del Tempo, e corrisponde alla forma mentale del ciclo della vita, del continuo alternarsi delle stagioni e della nascita, riproduzione e morte. Se la vita del singolo è destinata alla morte, ha il suo perpetuarsi nella discendenza, nella progenie dei figli e dei nipoti: cosi la dea Fortuna fu sempre associata alla fecondità. e alla fertilità. Lo stesso nome latino Fortuna deriva da ferre: portare, proprio nel senso della gestante che porta il figlio nel grembo. La dea era protettrice degli orti e delle frutta, e suo attributo era la cornucopia dell'abbondanza. La simbologia dominante della Ruota della Fortuna sembra quella di un'entità che determina 1'alternarsi del bene e del male, del successo e dell'insuccesso, del giorno e della notte ... Ma sotto tale idea ne affiora un'altra: l'idea-simbolo di un cerchio ruotante non mosso dal capriccio di una dea bendata, ma dalle leggi universali della ciclicità. Nell'imma­ginazione mitica il cerchio, dovunque appare, è simbolo della totalità temporale e dell'eterno ritorno. Il vocabolo latino annus ha la stessa ra­dice e lo stesso significato di anulus, anello. Il calendario, riproponendo ciclicamente il ritmo delle stagioni (con le feste rituali che segnano tali ritorni) garantisce l'uomo dai ciechi e incostanti capricci del destino.


È specifico del pensiero simbolico formulare un insieme capace di gettare un ponte tra due realtà contraddittorie e apparentemente in­conciliabili. La dea folle e cieca può ben poco abbandonarsi alle bizzar­rie, inscritta come è all'interno del ciclo cosmico, universale ed eterno delle alternanze determinate.  

 

Il doppio gioco dell’immaginario

 

La capacità di rendere messaggi ambivalenti sembra essere una carat­teristica degli `Arcani Maggiori'. Una pluralità di funzioni significanti si coagula nelle icone, che hanno, nell'immediatezza della rappresenta­zione, significati che sembrano iscritti in un codice segreto. L'immagi­ne, a differenza del discorso che deve svilupparsi sull'asse temporale di un “prima “ e di un “poi”, può simultaneamente esprimere vari mes­saggi nella sincronicità dei suoi elementi grafici. Ma la decodificazione di tali messaggi non e così scontata. I codici a cui l'icona si riferisce sono culturalmente determinati e sfuggono alla semplice intuizione.


La de­cifrazione deve affrontare il problema della polisemia del simbolo, nel cui ambito nessun significato è primario, né in senso gerarchico, né in senso storico. È certamente possibile rintracciare i segni della storia nel­le icone significanti; anzi, è fondamentale contestualizzarne i significati, vederne le origini e le riformulazioni, gli slittamenti semantici e le deformazioni. Il simbolo agisce come il sogno: traspone, condensa e in­verte i vari segni, dando forma a nuove sintesi, spesso originali e biz­zarre. Questo complesso intreccio di simboli e significati spiega anche le variazioni che nel corso dei secoli i Trionfi hanno subito. L'Arcano della Luna è uno dei più elaborati e complessi.

 

Secondo Michael Dummett il prototipo della Luna quale oggi è rappresentato nei popolari mazzi “marsigliesi” è stato elaborato dalla scuola milanese della fine del '400 (5).  Se ne può vedere un esempio nei Tarocchi del `Foglio Cary': spariti gli astrologi dei `Tarocchi di Carlo VI', sparita l'Artemide del mazzo Visconti-Sforza, appare in loro vece un paesaggio mi­sterioso e inquietante, come stregato. Sotto il disco lunare che campeg­gia nel cielo, due cani si fronteggiano, uno bianco, l'altro nero. Un laghetto lascia trasparire uno strano crostaceo, a metà tra il granchio e il gambero. Due torri massicce stanno sullo sfondo: un sentiero sembra dividere il paesaggio in due metà e tracciare una strada verso l'infini­to ... Eppure ogni elemento si riallaccia al vasto e complesso simbolis­mo lunare. La Luna è un astro che cresce, cala e sparisce, la sua vita sembra soggetta alla legge universale del divenire. La Luna ha una sua “storia” con nascita, pienezza, sparizione. Ma la scomparsa della Luna nell'oscurità della morte non è mai definitiva, è seguita dalla rinascita. Questo eterno ritorno alle sue forme iniziali, questa periodicità senza fine fanno si che la Luna sia l'astro per eccellenza dei ritmi della vita. Così la Luna domina tutti i piani retti dalla legge del divenire ciclico: acque, piogge, vegetazione, fertilità. Il tempo concreto fu misurato dall'umanità per mezzo delle fasi lunari. Ebrei e arabi ancora oggi hanno l'anno lunare che inizia con il plenilunio di settembre. II tempo misurato dalla Luna è un tempo “vivo”, è il tempo della fecondità femminile e vegetale, delle piogge e delle maree, della rinascita dopo la morte.

 

Diverse divinità femminili si riferiscono al potere della Luna: quando campeggia nel cielo è Artemide-Selene, quando scompare è Ecate, “la Lontana” che domina il regno delle tenebre, la dea della magia e del sortilegio, a cui solo cani neri venivano sacrificati ... Il destino della Lu­na è di vivere pur rimanendo immortale, di conoscere la morte in quanto riposo e rigenerazione, mai come fine. Con questo destino l'uo­mo si sente solidale e invoca la Luna nelle notti profonde. La zona lu­nare della personalità è la zona notturna, inconscia, crepuscolare che vive nel sogno, nelle fantasticherie, negli incantesimi silenziosi di giar­dini segreti. Tale aspetto può essere pericoloso: il “mal di luna” ha si­gnificato per secoli la follia...

 

Seguire le tracce degli elementi minimi significativi con cui si co­struisce un'immagine simbolica è in fondo l'unico compito possibile della decifrazione dell'interpretazione.


Alcune delle icone dei Taroc­chi sono estremamente composite e articolate. Prendiamo ad esempio il Mondo: la sua struttura tradizionale risale alla fine del '500, come ha dimostrato il Dummett. Tra le sei carte rinvenute nel Castello Sforze­sco abbiamo un unico Trionfo, il Mondo, contrassegnato col numero XXI. In esso compare una figura femminile semicoperta con un drappo e inserita in una corona di foglie e fiori a forma di mandorla. Ai quattro angoli compaiono gli emblemi che la tradizione cristiana attribuisce agli Evangelisti: il toro, il leone, l' aquila e l'angelo. Queste figure, pri­ma che nell'Apocalisse di Giovanni, compaiono nella visione di Ezechie­le. Nel cuore della vasta nuvola di fuoco trascinata dal vento di tempe­sta, nel suo centro sfavillante, il profeta vide quattro esseri viventi. Ognuno di essi aveva quattro facce e quattro ali. Essi avevano tutti una faccia di uomo, una faccia di toro a sinistra, di leone a destra e una faccia di aquila.


Queste enigmatiche figure dalle quattro facce compaiono nel contesto ancora arcaico della mitologia babilonese: Shamash, il sole, aveva fattezze di aquila; Sin, la Luna, aveva un volto umano; Nergal, dio della guerra, era il leone: e Ningirsu, inventore dell'aratro, era il bue. A tali figurazioni si legavano anche i quattro elementi - fuoco, aria, acqua, terra - e le quattro stagioni. Nell'Arcano XXI, circondata da questi emblemi, inscritta nella corona a mandorla, la figura drappeggia­ta mantiene intatto il suo enigma. È 1'Anima Mundi, vagheg­giata da Marsilio Ficino, che contiene in sé le “ragioni seminali di tutte le cose “? È l’androgino originario (dato che il drappo non rivela il sesso della figura), sintesi dei contrari, unione di spirito e materia? La figura, pur suscitando l'idea dell'armonia del Cosmo e del compimento della Creazione, non si lascia facilmente interpretare.

 

Le icone simboliche ci danno infatti apparenze, superfici: una figura alata, una Ruota che gira, un uomo appeso per i piedi ... La loro natura sembra preoccuparsi di nascondere il senso e di costruire, come se fosse perfettamente autonomo, un mono di apparenze. Sotto l’involucro può nascondersi il “significato’appreso dalla mente attraverso un ammaliante gioco di specchi. Nella Villa dei Misteri, a Pompei, un affresco enigmatico descrive lo svelamento dei Misteri nel corso di una cerimonia di iniziazione dio­nisiaca. I simboli sono perfettamente segnati, i gesti rituali chiaramente indicati, il velo sollevato. Ma per noi il mistero si mantiene tale, gravido di ambiguità. C'e, però un particolare che può svelare qualcosa sulla natura del simbolo. Si tratta di una strana e secondaria scena della se­quenza: un Sileno con la testa voltata da un lato tiene in mano un vaso mentre un Satiro vi guarda dentro, specchiandosi, e un altro Satiro tie­ne una maschera grottesca in mano, per farla riflettere nel vaso. Lo specchio dell'acqua (come lo specchio vero e proprio) è simbolo dell'il­lusione poiché quello che vediamo è solo riflesso di luce, e ben lo comprese Narciso a sue spese, innamorato e perduto dalla sua stessa imma­gine. Ma lo specchio è anche simbolo di conoscenza perché guardandomi, io mi conosco. E lo è in un senso anche più raffinato, perche tutto il conoscere è portare il mondo dentro lo specchio della mente, ridu­cendolo ad un riflesso che io possiedo.


Ed ecco la folgorante rivelazio­ne nel marginale particolare della Villa dei Misteri: guardando nello specchio (mendace, illusorio mondo di apparenze) `io vedo la realtà'. Il tema dell'inganno e della conoscenza appaiono cosi congiunti e sono in tal modo risolti. Il mondo delle immagini è il riflesso di una realtà più profonda e sconosciuta da cui tutto si diparte e in cui tutto si congiun­ge, dove la visione illumina quello che il pensiero intorbidisce. Tale è la nostra condizione di umani: noi contempliamo la realtà “per speculum in aenigmate. Come in uno specchio, attraverso enigmi. La decifrazione degli `Arcani' può così condurci molto lontano. Il mondo variopinto e futile dei Tarocchi è un riflesso di una realtà fantastica più profonda in cui si specchia la forza e la potenza della tradizione.

 
Note

 
1 - Citato in E.H. Gombrich, Iconae Symbo­licae, in “Immagini simboliche. Studi sull'arte nel Rinascimento”, Torino 1978, pag. 226.

2 - Ibidem, pag. 177 e segg. L'autore conside­ra acutamente le differenze formali tra immagine e simbolo, affronta il problema dell' allegoria e della personificazione delle idee al fine di interpretare il mondo in­visibile e le entità spirituali che hanno plasmato l'arte del Rinascimento, troppo a lungo considerata espressione esclusiva del godimento dei piaceri sensuali e della bellezza “fisica”.

3 - Cit. in E. Howald, Der Kampf um Creu­zer «Symbolik», Tubinga1927, pagg. 63 e segg.

4 - S.R. Kaplan, I Tarocchi, Milano, 1978, pag. 51.

5 - M. Dummett, The Game of Tarot, Londra, 1980, pag. 69.