Saggi Storici sui Tarocchi di Andrea Vitali

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Gasparo Gozzi e il gioco delle carte - sec. XVIII

Una partita fra 'Interesse' e 'Amore' e altre prose

 

Andrea Vitali, gennaio 2021

 

 

Il letterato, giornalista e intellettuale veneziano Gasparo Gozzi (1713-1786), autore di numerose opere in versi e in prosa, fratello di quel Carlo autore della commedia L’ Amore delle Tre Melarance 1, sebbene di nobili origini, soffrì per tutta l’esistenza di problemi economici, condizione che nelle sue lettere inviate ad amici e conoscenti espresse in più occasioni. Gasparo era uomo integerrimo e nonostante sapesse di valere, da fine moralista qual’era, aspetto che forse gli derivò dall’aver studiato da giovane presso il Collegio dei Padri Somaschi di Milano, rifiutò sempre e comunque la critica per la critica e la condanna senza riserve.

 

La sua raccolta di lettere venne pubblicata, egli vivente, nel 1750. In una di queste indirizzata al ‘Signor Anton Federico Seghezzi a Venezia’, egli sottolinea il suo disagio nel trovarsi a dover a che fare con villani incolti e presuntuosi. Immaginando che la propria mente fosse un libro da aprirsi a piacimento ogni qual volta lo desiderasse, egli indaga in quelle pagine il capitolo che tratta dell’invidia, da lui provata nei confronti di un uomo che considerava meno di nulla, ma che la sorte aveva favorito, aumentandone le ricchezze e il prestigio. Com’era stato possibile tutto ciò? La fortuna favoriva dunque i mediocri e rendeva sofferente i grandi? Quello non conosceva le lettere, non sapeva cosa fosse la bontà. Uomo di nobili costumi? Ma se li aveva imparati in un sottoscala fra i topi e gli scorpioni dove aveva vissuto per lungo tempo!  Soprattutto aveva trascorso l’intera sua vita a giocare a carte. Insomma, una critica feroce, comprensibile, ma che si smorza di fronte alla pagina del libro della sua mente alla vista delle parole Amore del prossimo.

 

Ancora una volta, chi giocava a carte non poteva non essere che un villano, un mediocre e un uomo senza qualità. 

 

Argomento della Lettera

 

Che trovasi fra villani in solitudine. Passa il tempo da sé. Immagina d’essere un libro. Qualità e sugo di questo libro.

 

 "...Mi pare dunque che l’animo mio sia come un volume assai grosso, nel quale siano descritti tutti i difetti e tutte le virtù dell’uomo con quest’ordine, che da una faccia sia, per esempio, notata l’Ira, e dall’ altra la Mansuetudine; poi si volti carta e si trovi l’Accidia, e sulla faccia a lato la Diligenza; e così la stampa vada sino alla fine, che accanto della magagna vi sia subito la medicina. Il libro non ha tavola, nè indice veruno; ma secondo gli accidenti che m’ avvengono di fuori, esso si va aprendo da sè, come l’ostrica sui carboni accesi, in quel luogo dove bisogna; ed io leggovi dentro e lo considero da tutte due le facce, e trovo subito due uomini, un buono, e un tristo vituperoso. Se qualche volta voglio leggervi dentro anche di mia volontà, senza che casi o movimenti esterni lo facciano aprire, s’ apre tuttavia a un mio cenno là dove più voglio, ch’ io non ho briga di cercare prima ne‘ numeri la rubrica o il capitolo che bramo di leggere. Basterà, per esempio, che io mi faccia una dubitazione e dica: se un uomo fosse accarezzato, stimato, innalzato dal favore della fortuna e degli uomini, mentre ch’io non fossi guardato in viso nè da questi, nè da quella, come lo comporterei? Eccoti che subito si apre il libro; leggo l’argomento della faccia del vizio, perchè quella è la prima a a mostrarsi all’ occhio, e vi trovo certe lettere gialle, come di fiele, che dicono: Invidia. Vado avanti. Vedi, dice il capitolo, quell’ animale con viso d’ uomo e cervello di pecora, com'è stato dalla sorte innalzato! Oh sortaccia! tu vai bene all'uscio di chi non sa s'egli è vivo. Oh uomini ciechi affatto! E che diavol di bontà ritrovate in quella bestia? Lettere? No. Perchè la vita sua l'ha fatta giuocando a carte. Costumi nobili? Dove gli ha imparati? Sotto a quella scala, ch'è stata il suo palazzo fino ad un mese fa, dove visse coi sorci e con gli scorpioni. Oh Dio! E non sentirò sdegno, che costui sia innalzato? Eh, non ti lasciar addormentare. Pigro, di’ male di lui; e s’ hai timore perch’egli è ricco e favorito, quando lo vedi, inghiotti la tua giusta rabbia; ma quando egli avrà voltate le spalle, addentalo; Quella sua fortuna, se lo potessi scavalcare, toccherebbe a te; e se anche la non ti tocca, pazienza, purch’ egli non l’ abbia. Non dormire: adoprati in questa bella azione, perdi il colorito e la carne, ma sta desto; fa conoscere al mondo chi egli sia, chè scoperto, darà del ceffo in terra. Letta questa puzzolente leggenda, giro l’occhio alla faccia di là, e trovo scritto a oro: Amore del prossimo. Comincia il capitolo: che vorrai tu fare di questa tignuola, di questo redente verme dell’invidia? Questa ti mangerà il cuore, t’ arderà il petto, ti trafiggerà la mente, e divorerà tutti i buoni sentimenti col suo pestifero ardore. Colui che non puoi sofferire in buono stato, è uomo come sei tu. Non ti dolere se un altro somigliante a te, ha qualche poco di bene. Che utilità fa a te il desiderio ch’ egli sia infelice?  Procaccia del bene a te medesimo senza sturbare l’altrui. E perchè vorrai tu giudicare i meriti suoi? Apri gli occhi: vedi bene chi tu se’ [sei]” 2.

 

 

 

Gozzi

 

                                                       Rosalba Carriera (1675–1757), Ritratto di Gasparo Gozzi, olio

 

 

La tendenza all'osservazione e alla descrizione etico-morale della realtà contemporanea attraverso narrazioni e ritratti nitidi e realistici, oltre che nelle sue Lettere Diverse che suscitarono l’entusiasmo del Goldoni, si ritrova in diverse prose.

 

Il gioco delle carte fu dal Gozzi considerato un veleno da estirpare, una malattia che abbruttiva lo spirito umano conducendolo laddove c’era la pace alla guerra, dove il sorriso alla smorfia. Facendo precedere la descrizione di una situazione da lui vissuta da una terzina del celebre Agnolo di Cosimo detto il Bronzino, uno dei grandi pittori del Cinquecento, l’autore mette in evidenza come il gioco delle carte fosse foriero di schiamazzi tali e di litigi fra i giocatori da provocare negli animi più sensibili un misto di incredulità e di conseguente commiserazione. Stessa valutazione attribuita al villano come sopra riportata.

 

XXXV

 

Casi osservati in una conversazione.

 

Tra lor non è né regola, né tuono,

Né biquadri, o bimolli, o altra chiave;

Ma il lor suggetto è il fracasso e lo intruono.

                                              

                                                  Il Bronzino

 

“…tutti si posero a giuocare a carte, chi da un lato, chi da un altro. Non passò un terzo d'ora, che si levò da tutt’i lati un rumore grandissimo. Poco era nel vero il danaro che si giuocava; ma non poco era il pantiglio. I vincitori quasi tutti ridevano in faccia a’ vinti; questi per dispetto ad ogni carta stridevano: chi s’imputava un errore, chi un altro, con tanta forza e altezza di voce, ch'io era quasi stordito; e talvolta fu, ch'io vidi i giuocatori vicini ad azzuffarsi” 3.       

 

In altra prosa dal titolo L’Amore e l’Interesse, vera e propria favola come denota il suo incipit “Narrano le antiche storie delle deità che trovaronsi un giorno nel palagio di un ricchissimo uomo l’Interesse e l’Amore, e tuttadue quivi aveano faccenda a pro del padrone”, l’autore racconta che Amore aveva fatto innamorare il padrone di una fanciulla di tale bellezza che nessun pittore avrebbe mai potuto renderle giustizia. Unico neo: la ragazza non aveva un soldo, quindi nessuna dote con cui incrementare il già ricco patrimonio. La cosa dispiacque molto a Interesse il quale cercò di escogitare uno stratagemma per allontanare Amore, ovvero la giovine, dal suo padrone. Si mise così a giocare a bassetta fra sé e sé, attendendo che Amore, data la sua curiosità, si facesse avanti. Infatti, dopo poco Amore gli chiese di giocare con lui, ma male gliene venne perché un po’ alla volta perdette tutti suoi denari. Nel tentativo di rifarsi, Amore si giocò l’arco, le frecce, poi le penne delle ali, talché Interesse, legatosi le vinte penne al corpo, con l’arco e le frecce se ne andò in giro spacciandosi per Amore. Con questa favola l’autore intese mettere in guardia su come, a volte, l’interesse negli affari amorosi fosse più forte dell’amore tanto da spacciarsi per esso.

 

XII

 

L’Amore e l’Interesse - Favola

 

“Posesi un giorno a sedere con un mazzo di carte in mano, e quasi per ischerzo mescolandole e facendo le une fra le altre entrare, giuocava da sė a sé alla bassetta con un monte di monete da un lato, tutto di oro che ardeva, e coniate allora allora, che avrebbero invogliato un romito. Amore, a poco a poco accostatosi, pose certi pochi quattrini in sui primi punti, i quali l'Interesse, che avea nelle uncinate mani ogni maliziosa perizia, glieli lasciò vincere per maggiormente adescarlo; ma poi cominciò a tirare acqua al suo mulino; tanto che Amore riscaldatosi, si diede a poco a poco al disperato e ad accrescere le quantità, sperando pure che la mala fortuna si cambiasse in buona; ma era tutt’uno, e in brevissimo tempo Amore si ritrovò senza in quattrino e con maggior voglia di giuocare di prima. Che volete voi più? Avendo egli già giocato ogni cosa, pose sopra un maladetto asso persino le armi sue, e avendo quelle perdute, vi lasciò finalmente l'arco, le saette, il turcasso e finalmente le penne delle ali; per modo che vergognandosi di mai più comparire dinanzi a Venere sua madre, s'intanò e nascose per modo, che non si sa poi più dove andasse. L’Interesse, della vittoria tutto lieto, si legò le penne alle spalle come potè; prese le armi di Amore, va oggidi in cambio del legittimo padrone di quelle adoperandole, secondo che gli pare che vi sia da far guadagno, e da chi non è informato dell’istoria, viene Amore creduto” 4.

 

Ma la favola non finisce qui: Amore, fattosi ridare dalla madre Venere le sue armi, se ne andò a vivere in campagna in mezzo ai semplici pastori e trovando quella vita assai piacevole decise di restarvi. Intanto Pace, vera compagna del vero amore, non sopportando di vivere in città con Interesse che faceva le veci di quello, se ne andò anch’essa in campagna da Amore. Ma venendo a mancare la pace nella città, si assistette a gravi disordini e litigi fra mariti e mogli, fra amici e addirittura fra fratelli. Cosicché Interesse, compresa la necessità che Amore e Pace ritornassero in città, inviò loro ambascerie promettendo che tutto sarebbe tornato come prima. Non avendo ottenuto risposta, Interesse si mise a cercare la fanciulla più bella che il mondo avesse mai visto, capace comunque di adattare il viso a ogni occorrenza, tanto che nessun astrologo avrebbe mai potuto indovinare ciò che veramente lei provava nel cuore.  Così continuò l’autore: “…nel viso, seguendo le occorrenze, dimostrava quello che si adattava alla volontà altrui; e secondo che vedea che altri desiderava, ora con lagrime bagnava gli occhi, ora col riso spiegava le ciglia, e in breve si potea dire che la pelle della sua faccia era una maschera la quale si tramutava secondo le occasioni. Oltre a ciò sapea costei fingersi ora cieca, ora sorda, ora mutola, c quando favellava dicea sempre quello che non sentiva nel cuore. Era il nome suo Dissimulazione, ed è ancora il medesimo” 5.

 

Dissimulazione, vinta dalle preghiere di Interesse, accettò dunque di spacciarsi per Pace, indossando i suoi abiti e prendendo tutti gli atteggiamenti di quella. In tal modo, a tutti coloro che non la conoscevano dette a intendere di essere Pace, tanto che ancora oggi è creduta tale.

 

Con il fratello Carlo, nel 1747 Gasparo aveva fondato l’Accademia dei Granelleschi tentando di dare vita a un repertorio teatrale moderno che escludeva l’uso delle maschere. Con ogni probabilità, il protagonista di cui alla seguente prosa fu uno dei membri di quella Accademia.

 

Il racconto descrive una serata come tante di un personaggio che dopo essere stato a giocare a carte presso il Ridotto 6 e aver vinto un’ingente quantità di quattrini, preso dal furore del gioco, ritenne di ritornare a giocare perdendo gran parte della vincita. Rimasto con pochi denari, tra mille dubbi e incertezze che la Fortuna lo avesse potuto favorire di nuovo, meditò fra sé e sé sul senso della vita, decidendo al termine di baciare quei pochi denari rimasti e se ne tornò a casa.     

 

LXXIII

 

Ragionamento dell’Increspato Academico in cui tratta di sé medesimo.

 

“…, rientrai di nuovo negli appartamenti della Fortuna; ed inoltratomi baldanzosamente, incominciai un’altra volta a giuocare. Ma che? Rivoltatasi la mia poco prima amicissima Dea con gli occhi altrove, e lasciatomi privo al tutto della sua grazia, io non seppi mai ritrovare in tredici carte quella che assecondasse il mio volere; di che ebbi tanto sdegno, che arrischiando sempre più per rifarmi di quello che mi avea portato via il punto innanzi, in poco d'ora mi ritrovai privo di quanto guadagnato avea; e se non fosse stato che i miei pochi primi ducati si ostinarono fra il sì e il no, fra l’andare e il venire tante volte, che il tagliatore per istracco mi licenzió, sarei rimaso anche privo di quelli. Io non vi posso dire la rabbia e il dispetto che avea non solo del perdere, ma delle parole che udiva di quando in quando dietro di me, le quali m’incolpavano di strano e d’imperito giuocatore. Mi tolsi di là con tanta furia, che non sapea più dove andassi. Per ogni piccolo urto avrei ammazzato un mio congiunto, non che altro. Uscii di Ridotto, ritornai nella bottega di prima, entrai nel primo stanzino, e postomi quivi non più a sedere, ma a pestar de' piedi in terra e a sbuffare, diceva fra me: Maladetta fortuna, non potevi tu forse assecondarmi anche questa volta? Non sono forse queste quelle mani che tu avevi poco fa col tuo favore prosperate? Perché le abbandonasti si tosto? E di là ad un poco, aggiungeva: Ma io fui, io il poco giudizioso. Perchè non mi contentai dunque di quello che guadagnato avea? Perchè mi venne in capo di volere divenir ricco? Ben mi sta, che non seppi contentarmị di quello che acquistato avea in così breve tempo. Ma in fine, poi aggiungeva, non ho io ancora questo picciolo rimasuglio de' miei pochi ducati, co' quali posso tentare un'altra volta in cui mi sia propizia la fortuna? Si, così si farà. Che fo ch'io non vi ritorno? Vadasi. E se io perdessi anche questi? e se mi venisse anche lo stimolo di andarmene a casa a pigliare que’ pochi che quivi ho, e se dietro a quelli mi venisse voglia di perdere anche altro, e se mi si appiccasse intorno questa stizza? O Increspato, adagio: vedi bene quel che tu fai. Considera i fatti tuoi. Metti a confronto que' varj pensieri che in poche ore ti si ag. girarono pel capo, e quelle passioni che ti assalirono il cuore. Studia qui un poco te medesimo. La prima volta che qui venisti co' tuoi pochi ducati, pochi erano nel vero, ma stavansi fra le misure prese da te del tuo vivere, e tu eri quieto e senza pensieri. Quello che fu ieri, sarebbe stato oggi e domani ancora, e l’animo tuo, già proporzionato al tuo avere per lunga usanza, non si sarebbe punto alterato. Hai tu finalmente a far altro che a proseguire giudiziosamente un metodo preso da te nelle tue faccende? A mantenerti con quell'abbaco che hai tu studiato, nel conoscimento di quello che possiedi e di quello che puoi spendere? Vedesti tu, quando ti pervennero alle mani que’ trecento ducati, quanti agi, quanti diletti ti si presentarono avanti agli occhi, de’ quali non avesti prima un pensiero al mondo? Credi tu che ti fosse bastato anche un guadagno maggiore? Noi abbiamo l'animo fatto a maglia, che, secondo quello che vi si mette dentro, si allarga; e il suo allargarsi non ha confine veruno. Poi fa comparazione di due gravissime inquietudini che in breve tempo hai sofferito e pensa all'una e all'altra di quelle, giudicando qual di esse sia la minore. Tu guadagnasti, e fosti travagliato perchè non avevi di più, non ti bastava più questo mondo e l'altro; l'allegrezza del vincere ti aveva tolto la quiete. Perdesti, e non ti ricordi qual fosse il tuo dolore: tu l’hai ancora e lo senti. Poni ora queste due inquietudini a fronte del tuo primo stato. Ti ricordi tu che non avevi un pensiero? Ti viene in mente che salisti quelle scale per fuggire il freddo, per osservare altrui, che tu eri padrone di studiare ne' difetti degli altri, che in fine eri uomo, e che ora, avessi qui chi ti osservasse, daresti materia abbondantissima ad un foglio? Fa conto di esserli notomizzato, hai ritrovato in te un cuore e una mente prima quieti, tranquilli e giudiziosi e sani; poi vogliosi di avere, stimolati dall' incendio de' diletti, e finalmente dalla passione del perdere. Sta in te l’eleggere a qual di essi tre stati vuoi tu appoggiare tutta la vita. O contentarti del poco, e goderti la tua tranquillità; o voler molto, e non avere per un verso o per l’altro più bene - In questa guisa parlai a me stesso, e ritornato in me, baciai i miei pochi ducati, e ringraziata di nuovo la fortuna che me li avea lasciati, mi partii di là, entrai nel mio stanzino, notai le mie meditazioni, e come udito avete, vi raccontai i miei casi” 7.

 

Da castigatore dei cattivi costumi fra cui quello del gioco, la sua prosa assume insegnamenti educativi, sottolineando attraverso la descrizione di una società malsana come la ragione dovesse sempre dominare ogni istinto in grado di condurre l’uomo a perdere oltre ai denari la propria dignità. Nel farlo fece ricorso anche alle vicende accorse a grandi uomini e, come nel seguente caso, a Guido Reni che una volta perso i propri denari, dopo averne vinti molti con i quali intendeva comprare diversi terreni, trovò la scusa che in realtà non gli sarebbe stato facile trovare buone terre e che non gli avrebbe fatto piacere avere a che fare con i villani (contadini), tanto più che lo spaventavano sia la grandine che le altre calamità naturali.   

 

“LXXXIVI pittori hanno sempre dello strano, e del fantastico. Chi nol sapesse quasi per proverbio, legga le vite del Vasari, quelle', che scrisse il Ridolfi, altre sì fatte, che ne sono molte, e vedrà s’io dico il vero. Guido Reno celebratissimo pittore quanto ognun sa, giuocava a carte disperatamente. Pentitosi di ciò, raccolse non so quante migliaja di scudi, e volea investirgli in terreni. Un giorno non si potè più ritenere, e gl’investì sopra un tavolino alla bassetta per modo, che non gli rimase un quattrino. Non fu mai veduto a ridere tanto saporitamente quanto quel giorno. Anzi provava con argomenti che avea fatto benissimo: che difficilmente avrebbe trovato fondi sicuri, che sarebbe stato alle mani con villani, che avrebbe avuto spavento delle gragnuole, e d'altre calamità” 8.

 

Anche se condannava la necessità di soddisfarsi attraverso le proprie passioni, il Gozzi l’accettava essendo un’esigenza radicata nella natura umana. Chi è senza peccato, scagli la prima pietra! Occorreva dunque che prima di biasimare egli valutasse sé stesso e la sua natura come precedentemente scritto: “Che utilità fa a te il desiderio ch’ egli sia infelice?  Procaccia del bene a te medesimo senza sturbare l’altrui. E perchè vorrai tu giudicare i meriti suoi? Apri gli occhi: vedi bene chi tu se’ [sei]”.

 

Diremo quindi che in Gozzi la condanna si stempera nel consiglio, come il prossimo racconto insegna, per cui data l’impossibilità per ciascun uomo di non privarsi dei propri piaceri, era almeno necessario che comprendesse i mali materiali derivati dal suo lasciarsi vincere da essi. La narrazione riguarda un giovane che andato in osteria con gli amici ne era uscito talmente ubriaco da dover farsi accompagnare a casa da questi. Lasciatolo davanti alla porta di casa e stimando che sarebbe riuscito a entrare da solo, se ne andarono. Dopo vari tentativi di svegliare i genitori che immersi in un sonno profondo non sentivano il campanello suonare, il giovane si coricò per strada. La mattina si trovò praticamente denudato del mantello, del cappello e della parrucca, “toltigli da alcuni uomini prudenti, i quali pensarono che uno, il quale dorma per le strade, debba andare mal vestito”.

 

“CXXVI. Secondo i capi sono i diletti che si prendono. Dirà uno la tale, e la tal cosa è a me un fastidio, e un altro non può vivere, se non l’ha. Il giuocare a carte, per esempio, a chi parrà un dispetto; e v'ha chi vorrebbe esser piuttosto senza denti, che senza le carte in mano. Ci sono uomini, i quali al vedere il frontespizio de' libri sbadigliano col polmone spalancato, e se ne leggono due righe dormono; alcuni altri si rompono la schiena a leggere, e a scrivere dì, e notte. Io non so chi abbia ragione. Ognuno la intende secondo che vuole. Ho sentito a dire un gran male del bere, tuttavia ci sono genti, che fanno della gola una pevera, e berrebbero una vendemmia; vada il cervello come vuole. Di quest'umore è un giovane, il quale uscito di casa pochi dì fa, si stette con una brigata di compagni all'osteria, fino a tanto che venne la notte, e non sapeva più dove si fosse. Fu dagli amici condotto come un azzoppato fino all'uscio della casa, i quali stimando, che quivi fosse oggimai sicuro, lo lasciarono. Egli suonò la campanella, ma essendo la sua famiglia a dormire, non venne udito. Borbottò lunga pezza all’uscio, e non potendosi più reggere sulle ginocchia, andato oltre pochi passi, pensò di coricarsi sulla via, che gli parve forse una camera; e così fece. Il sonno non guarda alle stanze, ed è un dono veramente del Cielo, che benefica cui vuole in ogni luogo. Gli suggellò dunque le palpebre, e sì gliele tenne chiuse, che la mattina si risvegliò a pena; e si trovò manco il mantello, il cappello, e la parrucca, toltigli da alcuni uomini prudenti, i quali pensarono che uno, il quale dorma per le strade, debba andare mal vestito” 9.

 

Note

 

1. Si veda L’Amore delle Tre Melarance Atto I°, II° III°IV°.

2. Lettere diverse di Gasparo Gozzi, In Venezia, Appresso Gio: Battista Pasquali, 1750, pp. 47-50.

3. Prose Varie di Gasparo Gozzi, Milano, Dalla Società tipografica de’ Classici Italiani, MDCCCXLIX [1849], p. 174.

4. Ibidem, pp. 40-41.

5. Ibidem, p. 42.

6. Con il termine Ridotto vengono chiamate le sale che nei teatri servono da sosta per il pubblico in occasione degli intervalli, un tempo utilizzate anche come Casinò.  

7. Prose Varie, cit., pp. 401-404.

8. Opere in Versi e in Prosa del Conte Gasparo Gozzi Viniziano, Tomo Duodecimo, In Venezia, Dai Torchi di Carlo Palese, M.DCC.XCIV.  [1794], pp. 158-159.

9. Ibidem, pp. 242-243.

 

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