Andrea Vitali, marzo 2017
Girolamo Baruffaldi (1675-c.1753) ferrarese, presbitero e letterato, scrisse diversi componimenti, di cui uno in particolare riscosse uno straordinario successo, quel Canapajo, trattato sulla coltivazione della canapa, che Venezia assunse come punto di riferimento per le necessità della propria flotta navale.
Passando a una sua singolare attività, occorre dire che al Baruffuldi piaceva inventare falsi storici, in particolare letterari, tanto che suoi componimenti, spacciati per autentici poemi di letterati rinascimentali, furono addirittura stimati dal Carducci, dal Foscolo e dal Leopardi caduti nell’inganno.
Nelle sue Rime Serie e Giocose 1 prese di mira le usanze dei suoi concittadini ferraresi, come la moda dell’indossare il toupet alla francese, “o sia sopra il ciuffo delle parrucche odierne”, i cappelli indossati dalle donne con relativo dialogo fra la testa e il cappello, l’insaccatura delle “vesti donnesche” ecc., inframezzandole con deliziose canzonette.
Quanto ripotiamo è parte di una Rima dal titolo Sopra il Solito, dove l’autore elegantemente satireggia coloro che per vivere in pace e tranquillità non cambiavano né il loro modo di pensare e di fare.
Il gioco dei tarocchini è considerato come un’abitudine irrinunciabile anche da parte di coloro che invece di recarsi sempre all’osteria per giocare con gli amici avrebbero dovuto ogni tanto fare i conti di casa. Situazione, come al solito, irrinunciabile.
SOPRA IL SOLITO
Convien ſar secondo il solito
A chi vuol viver in pace,
E non star fra la mordace
Altrui lingua ogn’ora involito.
Convien ſar secondo il solito.
Non crediate, ch’ io non veggia,
Che il mal vivere moderno
Non provvien dal mal governo,
Né da Marte, che guerreggia;
Tutto avvien, che si beffeggia
Nelle cose il buon midollo,
E si corre a rompicollo
Dietro al Vulgo ignaro, e stolido.
Per così far sempre il solito.
Quella Casa pare un Ghetto,
Tanto è piena di disordine:
Non v' è ora, non v’ è ordine
Di giammai mettersi in letto;
E l’uscir dal proprio tetto
Quando è l’ora del Mercato,
Saria un viver disperato,
Saria un caso troppo insolito:
Saria un viver contro il solito.
Che si metta un pò a sedere
Quel Padron da solo a solo
Per vedere, e non di volo,
Qual sia il dare, e qual l’avere;
Non si speri il suo piacere
E’ di stare al tavolino
A giocare a Tarrocchino
ln tripudio, in festa, e in giolito,
Perchè quello é l’uso solito 2.
[…]
Il Padre Cappuccino Francesco Maria da Bologna (1674-?) firmava le sue opere con lo pseudonimo di Egasto Acrivio A lui si devono alcuni scritti di religiosità oltre ad altri componimenti satirici.
Era un uomo di grande cuore tanto che i Faentini si sentirono in dovere di pubblicare applausi poetici in suo onore 3.
Anche se i maggiori critici letterari del tempo trovarono le sue Satirette Morali e Piacevoli 4, pubblicate postume, di scarsa qualità, occorre dire che oggi la loro lettura appare gradevole e divertente nel contempo. La sua satira non si esprime mai con toni violenti o pesanti, ma con una considerazione verso l’umano genere di pacata tolleranza, quasi di accettazione della natura dell’uomo che l’autore abbraccia pur volendo richiamarla all’ordine. Pare sentire gli echi di quel desiderio verso lo star bene e di lasciarsi andare a momenti di lusso che, con ben altri toni, venne preso di mira da esigenti religiosi 5.
Nel contempo le sue satire appaiono come un risvolto della vita quotidiana bolognese del tempo, una piccola enciclopedia di usi e costumi, da cui molto apprendere.
Ad esempio, siamo edotti dalla satira dal titolo Le Villeggiature sul cibo messo in tavola dalle famiglie benestanti, sui loro divertimenti tarocchi compresi, allorché queste si spostavano in collina per godere del fresco estivo.
Quivi in lieta compagnia
Si va a stare almen la Festa:
Nè si guarda a economia,
E a sfoggiare ogun s’appresta
Tutti invitan Commensali,
E si sguazza, si fan sciali.
Per la tavola i bocconi
Si ricercan più squisiti.
Quaglie, tortore, piccioni,
E li fichi saporiti
Col salame o mortadella,
Fritto, lesso, ragù, offella.
Qualche volta un buon pasticcio
Di gnocchetti o tortelini,
Vi si aggiugne: e se il capriccio
Della moglie il vuol, v’ha vini
Forastieri d’ogni genere,
Fin dell’isola di Venere.
V’è la torta, e nel Deserre
Li canditi, e li confetti
V’ ha li fiori d’ un Parterre,
E li frutti li più eletti:
E si vuole o il marzolino,
O la forma, o lo stracchino.
Dopo tavola il caffè,
E rosolj bianchi e neri:
E la Figlia col tuppè
Tien la tazza dei bicchieri:
E la Mamma intanto versa
Acqua turca, od acqua persa.
Stanno altrove i tavolini
Pel tarocco, e pel tresette,
Per primiere, e pentolini:
E a sbaraglio talun mette
Sulle carte in un sol giorno
Quel, che basta un’anno al forno 6.
La satira intitolata Il Giuoco appare uscita dalla penna di un buon informato per quanto riguarda l’origine delle carte. Contrariamente alla credenza errata che i tarocchi fossero di origine antichissima egli scrive, sulla base di scelte letture, che “De gli antichi prima io leggo, / Che ignoravan dadi e carte”, una valutazione controcorrente se si considera che da lì a qualche decennio si assistette alla nascita della credenza che i tarocchi fossero stati ideati dagli Egizi.
La sua tolleranza nei confronti dell’umano genere si evidenzia nella seguente sestina “Egli è ver, che ha l'Uom bisogno / D’alcun lieto diversivo: / Nè ogni gioco io già rampogno / Come all’anima nocivo. / Giusto è a tutti il suo ristoro / Dallo studio, o dal lavoro” ma che poi non diventi “Giornaliera occupazione”. Una saggezza che tutti potremmo condividere.
L’esortazione del buon Cappuccino è di essere equilibrati nel giocare, soprattutto nel puntare denaro, suggerendo nel periodo invernale davanti a un caminetto acceso di giocarsi al tarocchino non più di un bolognino: “E l’inverno presso al fuoco / Fate al più d’un bolognino (2) / La partita al tarrocchino”.
Il GIUOCO
Vuol sapersi qual sia il giuoco,
Che può usarsi onestamente,
Senz’offender molto o poco,
La giustizia: e se la Gente
Sia colpevol, che un mestiere,
Fa del starsi al tavoliere.
De gli antichi prima io leggo,
Che ignoravan dadi e carte:
E i lor giochi farsi veggo
Nella sola ginnich’arte,
Che a fatiche il corpo addestra
Nell’ atletica Palestra.
Aristotile e Platone
Dannar’ odo ne’ lor scritti
Qual corrotta nazione
Que’ di Lidia; perché additti
A dei giochi molli e vani,
Che i lor corpi fean malsani.
E nel Libro delle Leggi
V’è un consulto del Senato,
In cui strettamente leggi
Giocar soldo esser Vietato
Fuorchè usando asta, o pilotta,
O armeggiando in corso, e in lotta.
Ma a dì nostri andò in disuso
E la lotta, e il disco, e il corso:
D’ altri giochi venne l’uso,
E alle carte ànno ricorso
Specialmente gli Uomin molli,
E le Donne inerti e folli.
Or sol piace la primiera,
La bassetta, e il pentolino:
E si studia la maniera
Di passare a un Tavolino
L’ ore vuote di negozio
Onde quasi fuggir l’ozio.
Egli è ver, che ha l'Uom bisogno
D’alcun lieto diversivo:
Nè ogni gioco io già rampogno
Come all’anima nocivo.
Giusto è a tutti il suo ristoro
Dallo studio, o dal lavoro.
Ma tal sempre si mantenga
Che poi serva all’Uom di sprone
Al travaglio: nè divenga
Giornaliera occupazione:
E non mai s’azzardi tanto,
Che a ruina guidi e a pianto.
Giustiniano in gioco accorda
Che sia ai ricchi un asse meta:
E l’ass’è (Buddeo Ricorda) (1)
Assai piccola moneta:
E non v'uol, che sia pagato
Chi di più abbia guadagnato.
E altra legge infami chiama
Que’ che senza altro riguardo,
(O sia Uom mobile, o sia Dama)
Li giochi osano d’azzardo:
E l’entrate, e i fondi stessi
Alla sorte voglion messi.
Dunque è chiaro, che giustizia
(Se gran somma azzardi) offendi,
E che gioco è di nequizia,
Troppo a lungo se lo estendi:
E quasi ài per professione
Biribisso, e Faraone.
D’ Autor grave è sentimento
Che tra i molti Carcerati
Se ne trovi alcuno a stento,
Che gli enormi suoi peccati
Non ravvisi esser effetto
Del soverchio al gioco affetto.
E pur troppo egli è palese,
Che dà il gioco assai frequente
Causa all’Uomo di Contese:
E pel giuoco anche si sente,
Che la casa andò a soqquadro;
E che l’Uom divenne un Ladro.
Le bestemmie taccio e l’ira
Di chi al giuoco spesso perde.
Contro il ciel l’empio s’adira.
Giocator, mentre disperde
Sulle carte il patrimonio;
E dà l’anima al Demonio.
Pur dì tanti mali a fronte
Nella nostra Italia colta
Gli Uomin’ ànno alle man pronte
Carte e dadi: e stiman stolta
Quella Gente, o scrupolosa,
Che ogni dì giuocar non osa.
E se il Principe divieta
De l’azzardo i giuochi indegni;
Non più il Popolo s’accheta:
Anzi allor crescon gl’ impegni
Di violar la savia Legge,
Che un costume empio corregge.
Ma il mal vien, perché oziosi
Son del tutto i Cittadini:
E a se stessi son noiosi,
Se non giocano i quattrin
Dove cieca la Fortuna,
Molti pazzi insieme aduna.
Genti oneste, dalle carte
State lungi: e al vostro giuoco
Abbia industria la sua parte:
E l’inverno presso al fuoco
Fate al più d’un bolognino
La partita al tarrocchino. 7
(1) ass = moneta romana 8
(2) bolognino = moneta bolognese del tempo
A conclusione, ricorderemo la Serva di Dio Camilla Rosa Grimaldi (1708-1741) chiamata “Ministra professa degli Infermi” la cui vita fu di assoluta dedizione al Crocifisso. Dapprima, appena sentito il richiamo, vi si dedicò pienamente abbracciandolo; in seguito, data la sua giovine età, rincorse come tutte le sue coetanee gli innocenti divertimenti a loro propri fra cui anche il giocare a tarocchini. Quando Dio le si manifestò una notte facendole apparire nel buio della sua stanza lampi di fuoco, ella abbandonò completamente i pur innocenti divertimenti per dedicarsi a una vita d’amore verso gli prossimo.
Così descrive quanto accaduto quella notte, il suo confessore padre Giuseppe Capsone nel libro Vita della Serva di Dio Camilla Rosa Grimaldi del 1744, tre anni dopo la sua morte.
Capo Terzo
Dissipata alcun poco nello spirito, è da Dio con minacce rimessa sul primo fervore.
Cercando la Rosa di divertirsi dalle concepute malanconie, cominciò a comparire disinvolta, spiritosa, faceta, ridendo, saltando, giocando partite di tarrocchino, abbigliandosi alcuna volta, e continuando in queste leggerezze per un anno intero, fra limiti bensì della cristiana modestia, e moderazione; ma non senza discapito del fervore primiero, e de' precedenti esercizi di divozione. A rimetterla Iddio sul sentier retto, le mostrò il Cielo aperto sopra la stanza, minacciandola con orribili tuoni, e con lampi affuocatissimi 9.
Note
1. Rime serie, e giocose. Opere postume dell’Arciprete Baruffaldi, Tomo Terzo, Ferrara, Per Francesco Pomatelli, MDCCXXXVII [1787]
2. Ibidem, pp. 79-80.
3. Applausi poetici all'appostolico zelo del molto reverendo padre Francesco Maria da Bologna cappuccino definitor provinciale, guardiano del suo convento in patria, e predicatore per l'illustrissima comunita di Faenza nella quaresima dell'anno 1764. In Faenza, Presso l'Archi impressore camerale, e del Sant'Ufficio, 1764.
4. Satirette Morali e Piacevoli di Egasto Acrivio, In Fuligno, Per Gio. Tommasini Stamp.Vescov. [Vescovile], 1794.
5. Si veda El Bagatella ossia il simbolo del peccato.
6. Satirette..., cit., pp. 37-39
7. Ibidem, pp. 23-27
8. Sugli Aes e sulla loro influenza nei simboli delle carte numerali si veda L’Origine degli Assi.
9. Vita della Serva di Dio Camilla Rosa Grimaldi scritta dal di Lei Confessore P. Giuseppe Capsone, In Milano, Per Carlo Giuseppe Ghislandi, MDCCXLIV [1744], p. 12.
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