Saggi Storici sui Tarocchi di Andrea Vitali

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Crimini e Tarocchi - Sec. XVI

Tarocchi e Tarocchini nell'Archivio Criminale di Bologna

 

Andrea Vitali, giugno 2017

 

 

Caso Primo

 

Nel sec. XVI si assistette a Bologna a una serie di ribellioni contro l’autorità pontificia. Ad animarle furono varie famiglie, fra cui quella dei Pepoli. Il 20 ottobre del 1580 avvenne un assalto all’edificio nel quale aveva sede il tribunale del Torrone, con trafugamento di diversi incartamenti processuali riguardanti azioni di faziosi. Gli autori lasciarono poi rappresentato in effigie, come impiccato, il legato cardinale Pier Donato Cesi.

 

Quest’ultimo emanò immediatamente un bando che offriva 200 scudi di ricompensa per chi avesse contribuito a far identificare i responsabili. Il colpevole venne indicato nella persona di Girolamo Pepoli, figlio di Sicinio e Laura Contrari, cugino di secondo grado di quella famiglia.

 

Girolamo, per non dare adito all’accusa e con le spalle coperte dall’aver sposato Angela Boncompagni, nipote di Gregorio XIII, si consegnò il 13 dicembre. Processato, subì tre anni di prigione trascorsi i quali il Papa gli concedette la grazia.

 

Di seguito riportiamo un momento dell’interrogatorio, dove Girolamo, quasi avvalendosi, per così dire, della facoltà di non rispondere attraverso un laconico ‘non mi ricordo’, fece spazientire i giudici. Una strategia che nei cinque interrogatori a cui dovette sottostare dette i suoi frutti. In particolare, quando gli fu chiesto di cosa si occupasse quando risiedeva al feudo di Castiglione dove i Pepoli avevano una propria tenuta egli candidamente ammise ciò che ogni cittadino che abitava nella periferia avrebbe elencato, e cioè a volte interloquito con amici, giocato a tarocchino, al pallone, belle passeggiate all’aria aperta, senza dimenticare ovviamente la caccia. I tentativi da parte dei giudici di fargli ammettere incontri di carattere politico caddero così nel vuoto.

 

Di seguito, quanto Ottavio Mazzoni Toselli riportò sugli interrogatori nel suo volume Racconti Storici estratti dall’Archivio Criminale di Bologna 1:

 

“Nel luglio del 1582 un anno e mezzo dopo la prigionia del Conte ebbero principio i suoi costituti. Quasi a tutte le interrogazioni egli rispondeva non ricordarsi. Gli si chiese ciò che fece in tal giorno, ove andò, con chi ebbe colloquio.

 

«Le SS.VV.» rispose «mi domandano le più stravaganti cose del mondo: volere che io mi ricordi con chi parlassi, d'andare al Castiglione il giorno di s. Petronio, che non saprei se mi ricordassi quello che cenai ieri sera.

- Quali trattenimenti avevate al feudo Castiglione?

- Quando vado al Feudo dò alle volte udienza a quelli uomini, alle volte si gioca al tarrocchino, al pallone, si passeggia, si va alla caccia, e si fanno altre cose.

- Procurate di ridurre alla vostra memoria se nel giorno di sabbato mentre eravate alla caccia parlaste con certo Geminiano, e quai ragionamenti aveste con esso lui.

- Signori, se mi ricordassi che ser Geminiano mi avesse parlato o no che importerebbe a me farmelo domandare tante volte; le VV. SS. siano certe che non me lo ricordo, e poi sono già dicianove mesi ormai che io sono in prigione, e sono stato lungamente ammalato come le SS.VV. sanno, ed ancora mi molesta qualche volta la febbre: pare dunque alle SS. VV. che io mi possa ricordare se messer Geminiano mi parlasse o no? Se le SS. VV. me lo avessero domandato quando da prima io venni prigione, forse l’avrei avuto in memoria, ed avrei ancora saputo dirvi con certezza di assai cose, che ora non mi ricordo, ed è bella cosa a ricordarmi quel poco che mi ricordo».

 

Gli si fecero cinque lunghissimi costituti in fine de' quali si vedono scritte di proprio pugno queste parole:

 

Io G. non ho fatto lineature a questo esamine perché li signori Giudici non si sono contentati, ma ci ho fatti li numeri per ciascuna carta, che detti signori Giudici si sono contentati.

 

                                                                                             Girolamo Pepoli

 

 

Caso Secondo

 

Al paragrafo dal titolo “Omicidi commessi dal Conte Alfonso” il Toselli descrive una trama omicida messa in atto da Domenico Zambeccari bandito da Bologna in esilio per aver ferito un certo Camillo Merighi ai danni di un Teodosio Valenti.

 

La strategia era semplice: fingersi amico del rivale ignaro di essere considerato tale, passeggiare con lui un giorno sul far della sera, farsi accompagnare alla propria abitazione e salutarlo con amicizia dicendogli che sarebbe stato bene, data l’ora tarda, che prendesse la via di casa. Nel contempo il suo fidato servo Gotto, assieme ad altri tre masnadieri, l’avrebbe aspettato al buio sotto un portico che Teodosio avrebbe dovuto attraversare e lì rendergli morte.

 

Ma come spesso avviene, la giustizia non fece pendere la sua bilancia a favore del mandante, poiché sebbene colpito il Merighi da diverse pugnalate con tanto di perdita di otto denti causa un violento colpo il faccia e altro ancora, il sopraggiungere di un cavaliere fece fuggire gli assassini a gambe levate.

 

Per non anticipare del tutto quanto accadde, poiché il resoconto è di facile lettura, ricorderemo soltanto che il servo Gotto, una volta ritornato alla casa del suo padrone dove si era rifugiato Teodosio più morto che vivo, ignaro che proprio allo Zambeccari si doveva la volontà di assassinarlo, nel ritrovarsi davanti colui che prima aveva cercato di uccidere, fingendo incredulità sull’accaduto, esclamò: “oh sì che ora giuocheremo al tarrocchino!” a significare che la cosa doveva essere presa con estrema serietà, cioè che non era cosa su cui ci si poteva divertire e nel contempo che sarebbe iniziata una battaglia - come è la competizione fra i giocatori - per vedere chi l’avrebbe vinta, dato che Gotto sapeva che il suo padrone non avrebbe rinunciato a ucciderlo.

 

Così la descrizione del tentato misfatto e dei successivi eventi nella descrizione del Toselli.

 

Anno dell’accaduto: 1608

 

Arrivarono alla casa del Zambeccari ove stava, la sua femmina, chiamata Lucarella, ed un servitore per nome Battista Gotto. Ivi si trattennero osservando la casa e parlando di cose indifferenti Il Zambeccari chiamò il servitore e gli disse:

 

 - Ricordati di fare quel servizio questa sera per conto di quella spada.

    Il servitore rispose - non dubitate che farò ogni cosa, né mi moverò di casa [...]

 

Così dicendo si avviarono pian piano alla casa del conte Ercole, ed ivi giunti, il Conte entrò in casa, e gli altri gli diedero la buona sera. Congedati che furono dal Conte il Zambeccari disse:

 

- Orsù Teodosio è sera, andiamo anche noi a casa.

- Andiamo pure, rispose Teodosio, che la voglio accompagnare.

 

Arrivati alla casa del Zambeccari questi diede un fortissimo fischio, senza che alcuni venisse ad aprire la porta; bussò e finalmente fu aperta. Il Zambeccari entra in casa e data la buona sera a Teodosio, chiude la porta con molto rumore. Teodosio si avvia solo alla volta di casa sua e fatti pochi passi ed entrato sotto un portico buio e stretto, uno che stava in agguato dietro un pilastro lo affronta e gli dà una mezza spada sul volto che gli divise il labbro superiore facendogli cadere sette o otto denti. Ei cadde in terra, e nel levarsi fu di un altro colpo ferito nella spalla per cui ricadde. L’assalitore fugge e mentre Teodosio procura di alzarsi, gli corrono addosso altri tre armati di pugnali bolognesi, cui Teodosio non poté conoscere. Egli ricadde ancora gridando io sono assassinato, ed in questa saltò fuori un giovane cavalleggiero al servizio del Duca con un archibugio in mano gridando: «ah traditori! tanti ad assassinare un povero giovane!». Gli aggressori si diedero alla fuga ed il Cavalleggiero condusse Teodosio nella casa del Zambeccari ove battè tre volte senza che alcuno volesse rispondergli. Finalmente il Zambeccari venne egli stesso ad aprire la porta, e veduto Teodosio ferito gli disse:

 

- Che cos'è stato? siete voi Teodosio?

- Sì, sono io, che sono stato assassinato.

- Togliete via dalla faccia la mano che io, veda quello che avete.  

- Non posso per lo molto sangue che mi cola.

- Eh abbiate dell’uomo. 

- Eh signore non mi burlate, ho bisogno di un barbiere.

 

Fu mandata una donna pel medico Cesare Pazzolini modonese, che arrivato gli mise nove punti di cerotto. In questo frattanto arrivò in casa tutto sudato, pallido, ed anelante Gotto il servitore del Zambeccari che disse:

 

- Che cosa è stato signor Teodosio?

- Sono stato assassinato.

- Ed il Gotto ridendo, oh sì che ora giuocheremo al tarrocchino!

 

Medicato che fu Teodosio, il cavalleggiero lo accompagnò a casa, ed ivi a due o tre giorni fa visitato dal medico Pazzolini che gli disse: dappoichè egli era stato condotto via dalla casa del Zambeccari aver veduto tutti ridere, ed aver inteso da un vicino a quella casa, spettatore al fatto, che il primo feritore fu il Gotto, e che gli altri sopravvenuti furono il Conte Alfonso, il suo servitore, e Battista fattore. Nel di seguente venne a visitarlo il Zambeccari, e Teodosio gli fece dire che non poteva parlare, e che i medici glie lo avevano proibito. Ivi a due giorni il Zambeccari tornò a visitare Teodosio, presso al cui letto stava certo capitano Gesso, il quale veduto che col Zambeccari erano due compagni, chiuse la porta della stanza col catenaccio: poi saputo le insidie che si tendevano a Teodosio gli disse:

 

- Oh Teodosio andatevi con Dio, fate a mio senno, se no sarete ammazzato sin qui nel letto.

 

Anche il conte Ercole andò a visitarlo a cui Teodosio raccontò come il Zambeccari lo aveva condotto alla tagliola, e come il Conte Alfonso ed i suoi famigli lo avevano assassinato.

 

- Tacete, rispose il conte Ercole, perché se essi sanno che voi gli abbiate conosciuti verranno ad ammazzarvi sino nel vostro letto; andatevene con Dio" 2.

 

Caso Terzo

 

Sempre dallo stesso paragrafo Omicidi commessi dal Conte Alfonso, parliamo ora del nominato che già aveva preso parte in qualche modo alla vicenda precedente, reo di un numero non indifferente di assassini e percosse. Abitava costui fuori Porta Saragozza, a otto miglia dalla città dove un tempo sorgeva un’antica Rocca denominata Castello del Vescovo, sulle cui rovine venne edificato il palazzo dove nacque e visse. Di bassa statura e di carnagione bruna, tranne nel viso che denunciava un coloro rosso tipico delle persone irascibili, portava piccoli mostacci e una leggera barba scura. Quando risiedeva in villa si vestiva con abito berettino ricamato, un cappello in testa e portava sempre con sé un archibugio a ruota 3 e una pistola.

 

Invaghitosi di una fanciulla appena diciottenne di nome Lucilla, figlia di un certo Marc’Antonio Cavalli, la cui abitazione distava un miglio da quella del Conte, quest’ultimo sovente passava sotto le finestre di quella casa per cercare di vedere la ragazza. In occasione di una processione, Alfonso fece arrivare a Lucilla che vi partecipava assieme ai genitori, un biglietto in cui le confessava il suo amore. La cosa non fu ben vista dal padre il quale, temendo che la figlia potesse essere vituperata piuttosto che divenire Contessa, come altri parenti suggerivano, vietò a Lucilla di affacciarsi alla finestra qualora avesse visto il Conte sostare sotto casa.

 

Dato che quando Alfonso transitava per vederla ella si ritirava, egli comprese che il negarsi era da addebitarsi al padre per cui un giorno incontrandolo sotto casa gli disse:

 

“Tu sai che io vo a uccellare, e vo girando ora in un luogo, ora in un altro, ed ora in quà, ora in là, e tanto passo di qui, quanto in altro luogo”. Al che il Cavalli gli rispose: “A me non fa dispiacere nessuno, ci passano tanti altri, può passare ancora V.S.”.

 

Poiché le chiacchere sul Conte continuavano, Alfonso decise che avrebbe avuto vendetta di coloro che andavano ciarlando in giro e il primo a essere colpito dallo stiletto del Conte fu un certo Zannino, socio di Catterina Perdieri, madre di Lucilla. Poiché venne solo gravemente ferito, senza che desse l’anima a Dio, il Conte andò a trovarlo “dicendogli villanie e minacciandolo d’archibugiate se lo avesse nominato”.

 

Ma la cosa venne conosciuta per opera specialmente di Giuseppe Tuzzi, il quale, visto il carattere del Conte, non venne risparmiato dalla sua ira. Per assassinarlo Alfonso chiese a Tommaso Perdieri, fratello di Catterina, anche lui abitante nei dintorni, di favorirlo nell’impresa. Quest’ultimo, timoroso che un suo diniego avrebbe fatto adirare il Conte, accettò. Se un primo tentativo fallì, il secondo ebbe successo. In un giorno di festa, il Predieri, chiamato dal Conte, si recò al borgo dove trovò Alfonso che stava parlando con dei contadini. I due si avviarono verso il Palazzo dove erano giunti alcuni conoscenti del Conte per giocare a tarocchi. Messisi tutti attorno a un tavolo iniziarono la partita, la quale durò fino alle “ventidue ore, cioè due ore prima di quella dell’avemaria”. Preparato il desco e cenato, il Conte chiese a Giulio Mazza, uno dei suoi invitati, se gentilmente gli avesse prestato il suo “cappello di scorza, il quale era coperto di ermesino o taffetà, con cerchio largo e grande di testa”.

 

Lasciamo ora la parola all’autore del testo per conoscere gli sviluppi e la fine della vicenda:

 

«Arrivarono ad un viottolo o stradello che va verso la strada maestra che viene verso Bologna; passata la strada si fermarono di rincontro al detto stradello: ivi il Conte disse: “fermiamoci quà, che quà verrà uno adirci quando costui deve passare. Stato così un poco, certo Pier Antonio Lanzarini, arrivò nel crociale, ove coloro si erano appiattati, e fischiò. il Conte rispose col fischio e si accostò a Pier Antonio, il quale gli disse che Giuseppe era armato di spada. “Non importa, rispose il Conte, lascialo pur venire, e vieni tu in compagnia con esso lui, e nell'accostarti a noi ragiona forte, acciocchè noi ti possiamo sentire. Quanto sarai giunto a questa croce di strada, tu darai la buona sera a Giuseppe, poi andrai per la strada maestra, verso casa tua, perchè Giuseppe per andare alla sua, volterà per questo stradello”. Pier Antonio se n’andò, ed ivi a mezz'ora, siccome fu ordinato esso e Giuseppe vennero verso il luogo ove era tesa l'insidia: Pier Antonio con voce alquanto forte diceva a Giuseppe “voi avete il torto; vostro figliuolo è un galantuomo; è un uomo dabbene, un buon soldato, e voi siete un poco troppo fastidioso”. Giunti al crociale si diedero la buona sera. Pier Antonio andò per la strada maestra e Giuseppe per lo stradello. Allora il Conte, e il Perdieri uscirono dal nascondiglio e calarono giù nella strada ove camminava Giuseppe, e secondochè fu concertato fra il Conte e il Perdieri, quello parlava sottovoce fingendosi donna, questi gli rispondeva “eh che sei una poltrona, e non mi vuoi bene” sperando che a questi discorsi Giuseppe si sarebbe fermato ad ascoltarli, e così l'uno gli sarebbe passato d'innanzi per afferrarlo, e l'altro lo avrebbe ferito; ma Giuseppe camminava di passo gagliardo, tantochè il Conte disse al Perdieri “corregli dietro acciocchè tu lo fermi”. Quando Giuseppe senti d'essere inseguito cacciò mano alla spada dicendo chi è là? Il Perdieri nulla rispose e Giuseppe teneva detto chi è là, sta indietro. In questo mentre arrivò il Conte, il quale vedendo che Giuseppe stava su le difese, disse al Pedrieri tiragli una archibugiala. Giuseppe sentendo che erano più genti, fuggi; il Perdieri lo inseguiva camminando, e quando Giuseppe si senti sopraggiunto si voltò con la spada dicendo ancora stå indietro. Il Perdieri calò il cane dell'archibugio nella ruota, ma essendosi frapposta fra il cane o la ruota la manica del vestito non potè ritirare il braccio per mettervi il fuoco, rialzò frettolosamente il cane, e calatolo di nuovo su la ruota, mentre il Conte gridava tira, tira, strinse la molla e scaricato l'archibugio, senti che il povero Giuseppe gridava Gesù, Gesù. Allora gli assalitori voltaronsi indietro per ritornare a casa. Durante il cammino il Conte disse al Perdieri “gli hai colto?

 

        -   Io credo di si.

        -   Gli lai tirato da lontano, e al buio non gli avrai colto.

        -   Non gli ho tirato già da lontano; ma ditemi che vi ha fatto questo Giuseppe?

        -   È un insolente che vuol andar cianciando de' fatti miei, e far giudizi senza sapere ove egli abbia la testa: ma se tu non l'hai colto, se io credessi di abbruciarlo in casa non voglio che la scampi. Il Perdieri si andava querelando, che in quella scaramuccia aveva perso il cappello, ed arrivati al palazzo montarono subito alla camera superiore che guardava verso la vigna ove stava dormendo Giulio. Il Conte lo svegliò e dissegli.

- Oh Giulio voi dovete sapere che noi abbiamo perso il vostro cappello. Giulio tutto sonnachioso rispose: “Se l'avete perso vostro danno”. Il. Conte gli narrð tutto il fatto pregandolo a non dir nulla ad alcuno, e domandandogli se il cappello poteva essere conosciuto: Giulio rispose del no, ed il Conte e il Perdieri tutti contenti scesero d'abbasso e andarono a dormire in un medesimo letto» 4

 

L’indomani il Conte, recandosi all’osteria, venne a sapere che uno di Pontecchio, certo Giuseppe Tuzzi, era stato assassinato 5.

 

Note

 

1. Ottavio Mazzoni Toselli (a cura), Racconti Storici estratti dall’Archivio Criminale di Bologna, ad Illustrazione della Storia Patria, Bologna, Pei Tipi di Antonio Chierici, 1866, pp. 98-99.

2. Ibidem, pp. 215-217.

3. Gli archibugi con meccanismo a ruota avevano una grossa molla che al momento dello sparo metteva in movimento una ruota zigrinata che al contatto con la pirite produceva scintille che accendevano la polvere fine che a sua volta innescava lo scoppio della polvere nera e così via.

4. Ottavio Mazzoni Toselli (a cura), cit., pp. 180-183.

5. Si veda inoltre Un omicidio nella Bologna del '700 (Per debito al gioco dei Tarocchini)  

 

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