Saggi Storici sui Tarocchi di Andrea Vitali

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Vanità e Follia

Vanitas vanitatis et omnia vanitas

 

Andrea Vitali, settembre 2013

 

 

Vanità di vanità 1: d’altronde cosa sarebbe la vita senza un po’ di vanità? La negazione dell’uomo che l’Umanesimo aveva posto in primo piano, orgoglioso della sua essenza e delle sue azioni con cui poteva giungere a conquistare le vette più alte, gloria compresa. I predicatori evocavano il contrario.

 

La carta del Carro nella prima lista di Trionfi conosciuta risalente alla fine del sec. XV, il manoscritto Sermo perutilis de ludo, cioè sermone utilissimo per il gioco composto da un monaco rimasto anonimo, viene definita con l’espressione latina ‘mundus parvus’, cioè un piccolo mondo, un esiguo trionfo, inesistente, poiché la fama è destinata a perire assieme a tutte le altre cose di questa terra, compresa la bellezza, tormento del cuore e gioia degli occhi, afflato divino trasmesso alle idee e agli uomini.

 

La bellezza doveva essere vissuta con equilibrio, senza eccessi, compresa quella del Creato. La raffigurazione del mito di Ercole al bivio fra il vizio e la virtù come troviamo in numerose opere figurative del tempo, appare significativa al riguardo. In una incisione di Scuola del Carracci un Ercole seduto e appoggiato alla sua clava appare pensieroso di fronte alle profferte di due fanciulle. La donna alquanto discinta che appare alla sua sinistra, a simboleggiare il vizio (l’altra esprime la virtù), indica con una mano maschere e carte poste su un basso tavolo (da interpretare quale ‘bassezza’), mentre più in lontananza appare una rigogliosa fontana  (figura 1: Scuola del Carracci, inizio sec. XVII, Ercole al bivio fra il vizio e la virtù, bulino).

 

Attraverso l’illustrazione di questo mito occorre osservare come l’insegnamento cristiano del tempo non si limitasse esclusivamente alla scelta fra “castitas et lascivia”, ma si estendesse invero a tutto ciò che poteva, recando piacere, turbare l’animo umano conducendolo su una errata via. Fra questi piaceri erano contemplati anche quelli che derivavano dalla natura e dalle sue bellezze. Nella Rappresentatione di Anima et di Corpo posta in musica da Emilio de’ Cavalieri (c. 1550-1602) l’Anima duella con il Corpo a suon di tentazioni da parte del Piacere.

 

Ma veniamo alla descrizione che il Piacer, con due compagni illustra al Corpo:

 

“Chi gioia vuol, chi brama gustar spassi e piacere mentre il tempo lo chiama, venga, venga a godere, getti gli affanni suoi, corra a gioir con noi. Gli augelli pargoletti cantan su gli arboscelli: i pesci semplicetti guizzano pei ruscelli, e invitano al piacere con numerose schiere. Ridono i prati erbosi, c’han colorito i manti; le selve, e i boschi ombrosi son lieti e festeggianti: ogni piaggia fiorita all’allegrezza invita”.

Il Corpo: “A questi suoni e canti, Alma muover mi sento come la foglia al vento”. 

L’Anima “Come ti cangi presto? Sta’ forte e non temere, quest’è falso piacere”.

Il Piacere con i due compagni: “O canti, o risi, o graziosi amori, fresch’acque, prati molli, aure serene, grate armonie, che rallegrate i cori, conviti, pasti, e saporite cene, vesti leggiadre, e dilettosi odori, trionfi, e feste d’allegrezza piene, diletto, gusto, giubilo e piacere, beata l’alma, che vi può godere”.  

 

La risposta dell’Anima ribadisce ancora una volta il concetto della vanità di ogni piacere umano:

 

“Non vi cred’io no, no, li vostri inganni io so: tutte le vostre cose che paion dilettose, al fin son tutte amare: beata l’alma, che ne sa mancare”.

Il Piacere con i due compagni: “Cacciate via i pensieri torbidi, tristi, neri, aprite, aprite il petto al piacere, e al diletto, aprite, aprite il core a la gioia, e all’amore, dolce diletto, ch’allegra il petto, soave ardore, gioia del core”.

L’Anima: “Via, via false sirene, di frodi e inganni piene. Il fin del vostro canto, occupa sempre il pianto: ogni diletto è breve. Ma quel ch’affliggerà, finir non deve”.

Il Piacere con i due compagni: “Or poi che non v’aggrada la lieta compagnia, ce n’anderem per strada, dov’altri ci desia: che per aver contento, verranno a cento a cento”.

 

Siamo ben lontani dal secolo romanico quando la bellezza della natura era vista come la bellezza di Dio e dell’uomo stesso. La terra trasfigurata diveniva una terra celeste. La materia come la bellezza di cui era parte, era considerata un limite, ma non per questo era in sé cattiva, come affermò Platone nel Timeo. Poiché Dio desiderava essere riconosciuto dall’uomo non solo attraverso la rivelazione ma nello specchio della creazione, la natura doveva esprimersi in forme meravigliose. In tal modo Dio attirava l’attenzione dell’uomo e moltiplicava i segni per farsi riconoscere. La natura appariva dunque come uno specchio nel quale l’uomo poteva contemplare l’immagine di Dio (Quando tu uomo consideri l’universo, tu consideri la tua stessa natura). Era più una cerca tentata da Dio che una cerca di Dio tentata dall’uomo.

 

La bellezza e l’amore erano intese camminare assieme di pari passo: un amore che l’uomo aveva esteso a tutto il bello visibile e invisibile. I predicatori proclamavano il contrario, certi della follia che permeava ogni essere umano secondo i detti dell’Ecclesiaste (1-15): “Infinito è il numero degli stolti” (a significare che tutti gli uomini lo sono) e di Geremia “Ogni uomo è reso stolto dalla sua sapienza” (Capitolo X,15) e laddove egli attribuisce la Sapienza solo a Dio lasciando la stoltezza agli uomini (X 7 e 12).

 

Tutta l’umanità era considerata folle poiché perseguiva esclusivamente effimeri piaceri. Gli uomini più illuminati della Chiesa del tempo considerarono la ricerca del piacere da parte dei credenti come una risposta illusoria alla mancanza e al vuoto di uno stato primigenio di felicità, quello che la Chiesa stessa identifica con l’Eden, il Paradiso perduto. L’umanità, allontanata da questo, si trovava pertanto a vivere responsabilizzata delle proprie azioni, coercizzata all’interno di una realtà dove vivere implicava pianto, sopportazione e infine morte, senza alcuna certezza del domani, pesantemente schiava di una Ruota in grado di colpire chiunque. Il piacere allontanava tali pensieri, poiché per un breve istante l’attenzione era rivolta ad altro. Una risposta alla sofferenza che si sarebbe pagata a caro prezzo, poiché considerata un’insensata follia che avrebbe condotto l’anima alla dannazione. “Stolto è chi non vuol la Chiesa per Maestra” 2 diverrà uno dei principi dimostrabili della fede cristiana, benché i ministri della stessa Chiesa fossero anch’essi folli, se si convalida la tesi che tutti gli uomini lo sono.

 

La Nave dei Folli 3 di Sebastian Brant, intollerante cattolico, trasporta folli che in realtà sono già morti. Per Brant non esiste la possibilità dell’auto-rigenerazione attraverso la follia: quest’ultima è cieca di fronte alla morte, sia quella fisica che dell’anima. La disamina di Brant è rivolta a coloro che non possono e non vogliono essere salvati, facendosi promotore di un’azione di comunicazione sulla necessità di evitare, per la salvezza della propria anima, l’insensata follia.

 

Se è vero che ogni uomo è un folle, è d’altronde vero che per la Chiesa esistono due tipologie di follia: la follia sensata e quella insensata. La follia insensata conduce l’uomo alla perdizione; la sensata a mitigare il suo senso di solitudine accettando Dio e lavorando per uniformarsi alla Sua santa volontà. La bellezza, per la sua vacuità e per i piaceri che da essa derivano, rappresentavano per la sensata follia aspetti da evitare al fine della salvezza dell’anima. Da qui le stereotipate raffigurazioni del memento mori, con santi in meditazione, bimbi ignudi e teschi umani  (figura 2: I. Smith, sec. XIX, Memento Mori, maniera nera).

 

La donna incarnava la tentazione per eccellenza. Come era possibile sentirsi attratti dalla sua bellezza che già in vita non era altro che ciarpame? Così scrive al riguardo l’abate Odon de Cluny (c. 878-942): “La bellezza del corpo si limita alla pelle. Se gli uomini vedessero quel che è sotto la pelle, così come si dice possa vedere la lince di Beozia, rabbrividirebbero alla vista delle donne. Tutta quella grazia consiste di mucosità e di sangue, di umori e di bile. Se si pensa ciò che si nasconde nelle narici, nella gola e nel ventre, non si troverà che lordume e se ci ripudia di toccare il muco e lo sterco con la punta del dito, come mai potremmo desiderare di abbracciare il sacco stesso che contiene lo sterco?” 4.

 

Le raffigurazioni di Venere nuda assieme a Cupido e Saturno, il dio che governa il tempo, si configurano quali altrettanti memento mori indirizzati a una umanità legata all’insensata follia (figura 3: Antonio Morghen, Firenze, 1788 - 1853, Cupido, Venere e Saturno, acquaforte). Un insegnamento che ritroviamo anche nella carta del Sole di un Tarocco Parigino di anonimo del sec. XVII, dove una donna si guarda allo specchio tenuto in mano da una scimmia (figura 4: Anonimo, sec. XVII, Il Sole, xilografia dipinta a mascherina). Quando manca la consapevolezza che la ricerca della bellezza è vana cosa, la natura umana si abbassa fino al livello di quella animale "poiché, tutto va verso lo stesso luogo, tutto viene dalla polvere e tutto torna in polvere" (Ecclesiaste 3, 20).

 

“Homo fugit velut umbra” (l’uomo svanisce come l’ombra) fu espressione assai utilizzata da tutti i predicatori. Contro la morte, ineluttabile conclusione della vita umana, non vi è medicina.

 

Fino al sec. XIII, scrive Tenenti, non esiste una figurazione della morte non strettamente cristiana. Dalla metà del Quattrocento, con l’avvento delle grandi epidemie, in particolar modo la peste che mieté milioni di vittime, la paura della morte incombente produsse i suoi effetti anche nell’arte figurativa di carattere profano.

 

Grande diffusione ebbe allora la Leggenda dei tre morti e dei tre vivi in cui tre personaggi che in vita erano stati ricchi e potenti, assisi sopra le loro bare aperte parlano di sé stessi e della vanitas ad altrettanti vivi di alto rango, al cospetto della morte.

 

La rappresentazione della morte più usuale è quella di uno scheletro armato di falce, strumento che la connette a Chronos, il Dio del tempo il quale diventa elemento ausiliario della morte. Si può trovare inoltre con in mano un arco o una spada. Essa mantiene tali strumenti anche nel caso venga raffigurata a cavallo, nel ruolo di uno dei 'Quattro Cavalieri dell’Apocalisse' oppure nelle raffigurazioni del trionfo petrarchesco in cui è assisa con in mano la falce sopra un carro guidato da buoi psicopompi (dal greco ψυχοπομπóς, da psyche - anima - e pompós - colui che conduce) il cui compito è quello di accompagnare le anime dei morti nel loro viaggio dopo la morte (figura 5: Philip Galle, 1537-1612, Trionfo della Morte, acquaforte).

 

I personaggi che accompagnano il suo carro o che vengono calpestati appartengono a classi sociali ricche e potenti, siano essi laici o religiosi, persone che per i loro privilegi erano in grado di vivere agiatamente e a cui la morte appariva molto più devastante di quanto non lo fosse per quei miseri contadini che morivano in continuazione come mosche e che, tutto sommato, non avevano né salute né tesori di cui lamentare l’abbandono in seguito alla propria dipartita da questa terra.

 

La più antica raffigurazione conosciuta della morte a cavallo, che calpesta persone e brandisce la spada contro dei viventi, si trova in un affresco della metà del sec. XIV presso il monastero benedettino del Sacro Speco a Subiaco.

 

Accanto all’iconografia della morte e dei suoi trionfi, intorno alla metà del XV secolo si sviluppò il motivo della ‘Danza Macabra’, dapprima con intenti moralistici, quali forti immagini legate al memento mori, per svilupparsi poi come satira contro la corruzione e il fasto delle classi agiate (figura 6 - 7 - 8: Hans Holbein il Giovane, 1497/98-1543,  Danza macabra, da ‘Imagines Mortis’, xilografie, 1547).

 

La Morte danzante che trascina nel suo ballo del trapasso l’intera umanità fu fra l’altro motivo ispiratore per molti musicisti fin dal Medioevo. Stefano Landi musicò nel sec. XVII una celebre passacaglia detta Della vita i cui versi recitano: “O come t’inganni / se pensi che gl’anni / non hann’ da finire / bisogna morire. / È un sogno la vita / che par si gradita, / è breve il gioire, / bisogna morire./ Non val medicina, non giova la China, / non si può guarire, bisogna morire. / Non vaglion sberate, / minarie, bravate / che caglia l’ardire, / bisogna morire. / Non si trova modo / di scioglier ‘sto nodo, / non val il fuggire, / bisogna morire. / Commun’è il statuto / non vale l’astuto / ‘sto colpo schermire, / bisogna morire. / Si more cantando, / si more sonando / la Cetra , o Sampogna, / morire bisogna. / Si more danzando, / bevendo, mangiando; / con quella carogna / morire bisogna. / La Morte crudele / a tutti è infedele, / ogn’uno svergogna, / morire bisogna. / È pur ò pazzia / o gran frenesia, / per dirsi menzogna, / morire bisogna. / I Giovani, i Putti, / e gli Huomini tutti / s’hann’a incenerire, / bisogna morire. / I sani, gl’infermi, / i bravi, gl’inermi, / tutt’hann’a da finire / bisogna morire. / E quando che meno / ti pensi, nel seno / ti vien a finire, / bisogna morire. / Se tu non vi pensi / hai persi li sensi, / sei morto e puoi dire: / bisogna morire”.

 

Nonostante tutti i memento mori, amare la bellezza in ognuna delle sue forme, anche quelle fisiche, significa riconoscere in essa la perfezione del creato e la bellezza suprema del Creatore. Una bellezza che gli antichi intesero di Venere, sapendo di evocare con quel nome l’aspetto meraviglioso di un unico Dio.

 

Note

 

1. Questo articolo, pubblicato in Graphie, Rivista Trimestrale di Arte e Letteratura, Anno XVII, n. 73, 2015, sul tema 'Fragilis Mortalitatis', riprende alcuni contenuti già espressi in Gli AmantiLa MorteFollia e 'Melancholia',  Officium Lusorum, Maladetta sie tu, antica Lupa.

2. Trattato De’ Principj Dimostrabili della Fede Cristiana, Tradotto dal Franzese... dal Canonico Giuseppe Guerreri, Tomo III, In Piacenza, A spese del traduttore, 1752, pp. 118-119. (Autore e titolo originale dell'opera: Jacques-Joseph Duguet, Traité de principes de la Foi chrétienne, 1736).

3. Sebastian Brant, Der Narrenschiff, Basilea, 1494. 

4. Collationum Libri Tres, Liber II, in Jacques-Paul Migne,"Patrologia Latina", Vol. CXXXIII, col. 556.

 

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