Saggi Storici sui Tarocchi di Andrea Vitali

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Trastulli della villa - Trastulli della corte

Fra tarocchi e scacchi, il gioco in Adriano Banchieri e nelle Corti

 

Andrea Vitali, dicembre 2007

 

 

Nato a Bologna nel 1568, Tommaso Banchieri cambiò il suo nome in quello di Adriano dopo essere entrato nell’ordine Olivetano dei monaci Benedettini come novizio nel 1589. L’anno successivo prese i solenni voti e trascorse un certo periodo di tempo in diversi monasteri del suo ordine nell’Italia centrale e settentrionale per giungere nel 1607 a San Michele in Bosco, vicino a Bologna, dove rimase fino alla morte avvenuta nel 1634.

 

A San Michele iniziò la carriera di organista fino a divenire il personaggio più importante della vita musicale bolognese. Fra i suoi diversi maestri ricordiamo Gioseffo Guami, celebre compositore del tempo. Nel 1615 fondò l’Accademia dei Floridi assumendo il soprannome di Dissonante. Altri suoi pseudonimi furono Attabalibba dal Perù e Camillo Scaligeri della Fratta. Il Banchieri fu un personaggio poliedrico, musicista e letterato, organizzatore di eventi musicali e inventore di nuovi strumenti (l’arpichitarrone o arpitarrone).

 

Come Orazio Vecchi, il suo interesse fu rivolto in campo musicale allo sviluppo della commedia madrigalistica (o commedia harmonica), consistente in una serie di madrigali che uniti l’uno all’altro raccontavano una storia. Fra i suoi più famosi componimenti, accanto a canzonette e a una discreta mole di opere religiose, ricordiamo la Barca di Venezia per Padova, il Festino nella sera del Giovedì Grasso avanti cena, il Zabaione Musicale e La Pazzia Senile.

 

Di nostro interesse, in quanto l’autore vi discute sul senso del gioco e in particolare su quello delle carte, risulta l’opera Trastulli della villa, distinti in sette giornate pubblicato a Venezia nel 1627 che propone ‘In Discorsi e Ragionamenti’ Novelle Morali, Motteggi Arguti, Sentenze Politiche, Hiperboli Favolose, Casi Seguiti, Vivaci Proposte, Rime e Lettere Piacevoli, Proverbi Significanti, Essempi Praticati, Paradossi Faceti, Detti Filosofici, Accorte Risposte 1. Una ‘Curiosità Dramatica’, come riportato nel frontespizio, non musicale, anche se tre anni dopo diede alle stampe i Trattenimenti da villa concertati in ordine seguente nel chitarrone con 5 voci in variati modi. Vaga et curiosa concatenatione drammatica, dove alcune composizioni poetiche presenti nei Trastulli appaiono rivestite di note.

 

Se il Tasso nel suo Romeo, o ’vero del Giuoco aveva trattato l’argomento dividendo i giuochi in due categorie, quelli che risultano ‘imitazioni di cose vere, come sono i torneamenti, gli assalti ec.’ e quelli che ‘della vittoria de' quali è premio il danaro o cosa di cui il danaro sia misura’ 2, per il Banchieri il vero gioco è quello che dà la possibilità di evitare l’ozio trascorrendo al massimo un paio d’ore attorno a un tavolo giocando a tarocchi o a scacchi, perdendo al massimo qualche reale, oppure una somma leggermente superiore se la condizione economica dei giocatori favoriva puntate più alte. Non reputa gioco qualsiasi intrattenimento da taverna che poteva far perdere cifre enormi, come era accaduto a un tale che aveva perso 100 fiorini. Sebbene si trattasse di un’invenzione drammatica assunta come pretesto per discutere sull’argomento, in questo caso non si sarebbe più dovuto parlare di gioco, ma di ‘Foco’.

 

“Volete ch’io vi dica quale è gioco? l’estate per sfuggir l’otio, e nocivo dormire, spassarsi una par d’hore, à tarocchi, sbaraglino, ò scacchi, dove vi scorra un paio di reali al più nelle persone di mediocre conditione; ed à comparazione in maggior somma, à quelli, che hanno cavana da gondola, ò rimessa di carrozza; questo si chiama gioco; ma questo sgratiato di cui favelliamo perdere cento fiorini? gioco, eh? nò nò gioco diciamoli nome più significante. Foco. Mi sovviene in tal proposito quattro proverbi comunali, che sono

 

Accender Foco,

Attizzar Foco,

Metter Foco,

E’ tutto Foco.

 

... questi quattro proverbi cangiati di gioco in Foco, sortiscono in quelli cittadini, ò artisti, che praticano vitio cotanto dannevole. Esprimo quando un paio di tali campioni s’accingono in duello con la carta da resto, alla tagliata, primiera, banco fallito, pentolini, ò simili, overo co’ l Dado à massa, ciancie, ò passa diece, e che s’intaccano all’ingrosso, quello cui svolta la disdetta inarca le ciglia, straluna gl’ occhi, arruota i denti, calpesta il piede, mordesi il detto, muggisce come un toro, freme come un leone, e sibilla come un serpente; maledice (Ahimè, chi hà orecchio intenda) e di peggio; eccoci cessata la disdetta, e trasmutati nell’avido avversario, oimè, oimè quanto Accendimento di Foco” 3.

 

Gli altri tre proverbi non fanno altro che sottolineare il ‘Foco’ che pervade il giocatore sfortunato e perdente e i suoi rapporti infuocati con gli avversari vincitori, oltre alla condizione di una vita senza denari.

 

Certamente il Banchieri sarebbe inorridito se fosse venuto a conoscenza che alla corte Francese si spendevano fior di denari al gioco, come racconta l’Aretino nelle sue Le Carte Parlanti: “Presupponiti che la Corte Francesca, in quanto al giuoco, sia la fiera di Lanciano, di Foligno, di Recanati, e di Lione insieme, & aggiugnici anco la piazza giudea di Roma, il Ghetto di Venezia, con tutti i Monti della pietà delle terre, che gli usano,  & ogni altro luogo, che presta, che mercanta, e che contratta…. Non volge tanti denari la Fiandra mercantesca, né l’Italia mercantesca; quanti ne volgono in giuoco le Signore ed i Signori, i quali corteggiano la sua Corona: de i gentil’ huomini tacciamo, & de i Capitani il medesimo" 4.

 

A corte si giocava molto nonostante i divieti. Ne è esempio un decreto fiorentino del 1594 che in riferimento al gioco dei dadi così imponeva: “sia prohibito a qualsivoglia persona di qual si voglia stato, o conditione che sia quantunque titulata esente, o privilegiata di potere giocare in detta Città di Fiorenza, ne in qualsivoglia parte, o luogo del Dominio Fiorentino...” 5. Un decreto che imponeva chiaramente l’osservanza dei suoi dettami da parte di tutti, cortigiani compresi.

 

In generale il giuoco era inteso come una meritata pausa dalle cure e dalle mansioni che il lavoro imponeva, per cui appariva più che naturale che tutti, compresi i cortigiani, ne godessero appieno: “Non potendo l’intelletto nostro operare, se non per mezzo di questi sentimenti, & questi essendo instromenti deboli & imperfetti, & che nellesser adoperati agevolmente si stancano, non so io che modo, insieme co gl’ instrumenti l’artefice ancora, egli perciò habbia spesso bisogno di quiete, & di ricreatione, senza il ristoro, che gli conviene ad ogn’ hora prendere delle fatiche, & de fastidi, che porta di necessità seco la vita nostra, e de’ travagli con che spesso ne affligge la nemica sfortuna. Quinci veggiamo, che diverse sorti di riposo, & di diporti, si vanno per questo honestamente procacciando gli huomini, secondo l’età, la conditione, il paese, & la stagione in che si ritrovano accomodati. Et non solamente hanno ritrovati svarchi, & ristori privati, ma i Principi, & le Repubbliche hanno alcune consolationi, & piaceri pubblici ordinati, se non per le ferie a litigij, le vacanze alli studij, ma diversi spetacoli, & varie sorti di giuochi a diletto de popoli hanno ritrovati” 6.

 

Una necessità ricordata anche dal Lollio 7, in questo caso riferito alle persone su cui gravava il peso di un governo o di importanti cariche:

 

Io fui già di parer, che il più bel giuoco,

che si possa giocare à Carte, fosse

Quel del Tarocco: onde talhor per spasso,                   105

Per ricrear gli spiriti afflitti e stanchi,

Con lui mi trastullava, trappassando

Quelle hore, che son men’atte a’ studi:

Ricordandomi, che gli huomini illustri,

Havean col giuoco alleggerito il peso                           110

De i lor gravi negoci, et racchetato

Gli alti pensieri,et le noiose cure

Cosi si ricreava Palamede,

(Se si dè far la comparratione)

Per fuggir l’otio, il fastidio, e la noia,                           115

che gl' ingombrava il cuor, nel lungo assedio

Di Troia, quando ritrovò li Dadi.

Cosi si trastullava il buon Catone,

Nè men di lui il gran Cesare Augusto,

Claudio, Galba, Traian, Domitiano,                             120

Molti, e molt' altri, ch’io lascio da parte...

 

Ma con il tempo, in concomitanza con il desiderio di ricchezza derivato da auspicate vincite, l’attrazione verso il gioco si fece sempre più impellente nei cortigiani tanto da far esclamare al Cobarrubias, nei riguardi della tolleranza adottata dai Principi, che essi “veramente doverebbono sbandirlo dalle loro corti & stati 8... nol fanno anzi simulano, et sono loro i maggiori giuocatori, et se alcuno è castigato non è quel che giuoca mille scudi ma colui che giuoca un marcello” 9.

 

Si dovette così ricorrere a una scappatoia legale per permettere ai nobili di praticare liberamente ciò che per divieto era imposto dalle leggi.  Lo stratagemma consistette nella supposta liberalità del gioco aristocratico, per cui “se il giocatore era ‘liberale’, attraverso la distribuzione della posta in gioco mediante una munifica condivisione della propria vincita e accettando nel contempo pacificamente la propria perdita, egli non si poneva contro la legge poiché ludus non sit mortalis ex solo circumstantia animi principaliter lucrandi aliquid, etiam notabile ab eo, qui donare potest, ut probat Caietanus in 2.2. quaest. 168. Art. 3” (Il gioco non deve essere considerato un peccato mortale principalmente per il solo motivo dell'animo di lucrare qualcosa, ma può essere notabile per colui che può donare, come afferma Gaetano...”10. In tal modo “I giochi a Corte rimasero extra-legem, ab-solutus, perfetti e senza limiti, uno degli infiniti privilegi” 11.

 

Le spese dovute al gioco sia presso le corti che nei palazzi della Cristianità furono sempre notevoli: “Reduce da Roma l’ambasciatore veneto Marino Zorzi, assicura, nel 1517, che il pontefice Leone X ‘spende’ i sessantamila ducati annui derivantigli dai benefici vacanti ‘in doni e in giocare a primiera, di che molto si diletta’” 12, mentre in appena due serate Vincenzo II Gonzaga, Duca di Mantova, nel 1589 perse più di 15.000 lire, una cifra che corrispondeva ai salari annui di 600 dipendenti della Corte 13. Il 28 gennaio 1589, il tesoro diede ‘All’ Il.mo S.r Hercole Gonzaga che avanzava da Sua Altezza, vinti giocando, ducatoni 600, che fano lire 3,630’, mentre il 7 febbraio dello stesso anno diede ‘Al S.r Conte Pirro Visante ducatoni 2,000 da lire 6 l’uno vinti a Sua Altezza…’ 14.

 

Testimonianze che si potrebbero prolungare all’infinito (14).

 

Note

 

1. In Venetia, Appresso Gio: Antonio Giuliani, 1627.

2. Si veda Il Tasso e i Tarocchi.

3. Camillo Scaliggeri della Fratta (Adriano Banchieri), Trastulli della villa…, cit. nel testo, Quinta Giornata, Ragionamentopp. 239-240.

4. Le Carte Parlanti; Dialogo di Partenio Etiro [Pietro Aretino]; Nel quale si tratta del Giuoco con moralità piacevole, In Venetia, Per Marco Ginammi, 1650, pp. 102-103.

5. Legislazione Toscana [1532-1775] Raccolta e Illustrata dal Dottore Lorenzo Cantini Socio di Varie Accademie, Firenze, Nella Stamp. Albizziniana da S. Maria in Campo per Pietro Fantosini e Figlio, 1804, Tomo Decimoquarto, p. 79.

6. Girolamo Bargagli, Dialogo de’ Giuochi che nelle Vegghie Sanesi si usano di fare del Materiale Intronato, Prima Parte, In Venetia, Appresso Alessandro Gardane, 1581, pp. 26-27.

7. Biblioteca Ariostea, Ferrara: Invettiva di M. Alberto Lollio Academico Filareto contra il giuoco del tarocco, ms. CLI, 257.

8. Rimedio de’ giuocatori, Composto per il R.P.M. Pietro di Cobarubias dell’ordine de’ Predicatori..., In Venetia, Appresso Vincenzo Valgrisi, s.n.p. Edizione originale: Pedro de Cobarrubias, Remedio de Jugadores, Burgos, Melgar, 1519. La moneta marcello, dal Doge Nicolò Marcello (1473-1474), valeva 10 soldi cioè la metà della lira Tron, emessa dal suo predecessore Nicolò Tron nel 1472, considerata la prima lira emessa in Italia.

9. Ibidem, p. 180.

10. Guido Guerzoni, Playing Great Games: the Giuoco in Sixteenth-Century Italian Courts, in “Italian History & Culture”, Villa Le Balze, Georgetown University, Edizioni Cadmo, 1995, p. 50.

11. Ibidem, p. 51.

12. Gino Benzoni, Chiaroscuri lagunari, ossia il fantasma del gioco, in Alberto Fiorin (a cura) “Fanti e Denari. Sei secoli di giochi d’azzardo”, Venezia, Arsenale, 1989, p. 33. 

13. Cfr. Guido Guerzoni, cit., p. 52.

14. Cfr. Archivio di Stato, Mantova. Archivio Gonzaga, b. 410B D.XII-8 fasc. 43, fol. 36r, 28 gennaio e 7 febbraio 1589.

15. Si veda in proposito Guido Guerzoni, cit., pp. 51-55.

  

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