Saggi Storici sui Tarocchi di Andrea Vitali

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Una guerresca partita a Trionfi

Due componimenti di Giovanni Petrei - sec. XVI

 

Andrea Vitali, agosto 2009

 

 

Dei poeti della famiglia Petrei non sapremmo nulla ai tempi nostri se Francesco Trucchi, vissuto nel sec. XIX, non avesse svolto un’indagine accurata sui manoscritti fiorentini del Cinquecento alla ricerca di autori sconosciuti e delle loro opere. Grazie a lui - ed è cosa di cui il ricercatore andò fiero - le poesie dei quattro ‘ingegnosissimi’ fratelli Petrei, Sandro, Giovanni, Piero e Antonio, presenti presso il codice 1097 strozziano, vennero alla luce. Quattro fratelli con molto in comune, se non tutto, descritti dal Trucchi all’interno della sua disamina sui ‘Poeti Cinquecentisti’ come segue:

 

SANDRO, GIOVANNI, PIERO E ANTONIO PETREI

 

"Non è una gran meraviglia, esclama Ugolino Verino, nel suo bel libro delle illustrazioni fiorentine, che una sola casa produca tre poeti? Tres producat domus una poetas! È una meraviglia certamente, e nessuno lo nega. Ora v' è novità più meravigliosa ancora: quattro poeti in una sola famiglia, quattro ingegnosissimi poeti, che vissero nel medesimo tempo, corsero in vita e in morte, a un bel circa, la medesima fortuna, ebbero lo stesso carattere, lo stesso linguaggio, il medesimo stile, gli stessi difetti, gli stessi pregi e gli stessi vizi e le stesse virtù: dimodoché si direbbero un'anima sola spartita in quattro noccioli. Tutti e quattro son rimasti finora sconosciuti, e tutti e quattro avranno, per opera mia, le loro migliori poesie, stampate nel medesimo volume. E questi quattro poeti sono Alessandro, Giovanni, Piero e Antonio Petrei: le loro poesie si trovano tutte riunite nel medesimo testo a penna 1097 strozziano, scritto, il forte, di mano di Antonio Petrei, e parte di mano di Baccio Petrei, padre di Antonio. In margine si legge una nota di questo tenore: «Fino a pag. 112 scritto per mano di Baccio Petrei, mio padre; male scritto, e peggio ordinato, perchè non sapeva molto quello che lui si facessi». E prima si trovano le rime di Sandro, poi quelle di Giovanni, poi seguono quelle di Piero, e infine quelle di Antonio, che solo ha il titolo di messere. Piero era fratello di Giovanni, come si vede in un sonetto, in cui lo chiama fratel mio. Era strettamente congiunto a Piero, e Antonio era nipote a Giovanni. Tutti e quattro, in gioventù, servirono in qualità di paggi, di cortigiani, dì segretari, di che sa che, dei grandi personaggi. Piero servì la casa Medici; Antonio, il cardinal Ridolfi. Si legge in una lunga satira in terza rima da lui scritta contro messer Stefano Ercolani «quando egli stava in corte del cardinal Ridolfi. Questi cortigiani de' principi de' cardinali del cinquecento ne sentivano e ne vedevano tante e tante, che diventavano i più maliziosi, i più furbi, i più tristi cortigiani del mondo, e i più solenni autori di satire, che mai si udissero dall' origine di Pasquino in poi. E più di un alto personaggio condusse con grand' ingegno, in tutta segretezza, un intrigo, o vuoi di politica o vuoi di galanteria, e si teneva impenetrabile a tutti, che la mattina se ne vide il sonetto, con molte code, appiccato a Pasquino; e tutta Roma, prima e meglio di lui, seppe tutta la storia dei fatti suoi. Chi è l'autore di quel sonetto? grida la polizia. È Pasquino: risponde il popolo. Non cercate più in là. E tali erano questi Petrei: e fra le rime loro si trovano molti sonetti in nome di Pasquino, i quali, all'apparizione loro, avran dato al volgo romano assai che dire, e che proverbiare. Alcune satire di questi Petrei sono bellissime e originali, e di nova ragione; come il «Lamento di messer Niccolò de' Rucellai, canonico fiorentino, bastonato perchè voleva far il vago colla sposa di un contadino». Piero e Giovanni alludono sovente nei loro versi ai fatti avvenuti nel 1527, 1529, 1530, 1540, 1570. Le rime di Sandro e quelle di Antonio portano la data del 1571 e 1575. Erano dunque tutti e quattro contemporanei. Sandro fu un donnaiolo sopraffine finché visse. Giovanni, in gioventù, fu un poco avventuriere, un poco spadaccino, e d' ogni ria cosa un poco; insomma fu quel che fu; ma in età più matura diventò pievano di non so che pieve. Piero fu un solenne giuocator di scacchi. Antonio fu de' più pazzi e de' più arrischiati accattabrighe del cinquecento, un vero compagnaccio di Benvenuto Cellini” 1.

 

Due sono i componimenti di Giovanni che hanno attratto la nostra attenzione, straordinari in quanto rari esempi di poesie composte sulle minchiate - vale a dire il Tarocco Toscano - e sui minchiattari, cioè coloro che giocavano con quelle carte. Il primo sonetto dal titolo Il duca Sforza, e Carlo imperatore, è da farsi risalire ai tempi delle guerre fra Francesco I re di Francia e l’Imperatore Carlo V, che vide anche Venezia e Milano coinvolti nel teatro bellico.

 

Scrive Torquato Tasso nel Romeo a proposito del gioco in generale e del suo significato che “questo nome giuoco è un di quelli che son di doppia e varia significazione... percioché... significa ancora alcune imitazioni di cose vere, le quali per lo più sono imitazioni di guerra, percioché giuochi sono i torneamenti e le barriere, e giuochi gli assalti de’ castelli, e giuoco è quel delle canne e de’ caroselli: e di coloro ch’ in si fatti giuochi s’esercitano, quel si può dire che disse Lucrezio, belli simulacra cientes, ché veramente essi altro non sono che rappresentazioni e imagini di guerre... percioché non solo il giuoco degli scacchi rappresenta la guerra, ma quella della palla et de’ tarocchi e molti altri di questo genere par che d’alcuna cosa sia imitazione” 2.

 

Anche se come oramai sappiamo la parola Tarocchi si deve primieramente far derivare dalla carta del Matto 3, in base alle varianti storiche di 'tarrocco' o 'tarroco', occorre valutare il termine anche sotto l'aspetto ludico attribuendogli in questo caso il significato di attacco con carte di presa più forti rispetto a quelle degli avversari, in quanto con le espressione 'ti arrocco, t'arrocco, ti arroco' si intendeva richiamare gli avversari sul fatto che si erano messe in campo carte di vittoria che costringevano gli avversari a mettersi sulla difensiva 4. Un’imitazione della guerra che in questo sonetto trova una ancor maggiore espressione in quanto le mosse dei giocatori rispecchiano azioni belliche in un qualche modo da loro realisticamente svolte.

 

Che il gioco nel Sonetto sia quello delle minchiate non vi sono dubbi, dato che oltre al Bagatto (citato come ‘il primo’), al Sole, al Carro (‘e dà il dieci’) e al Mondo, trionfi presenti anche nei tarocchi non toscani, vengono ricordati alcuni segni zodiacali quali il Capricorno (‘il vent’otto’) e il Leone (‘lion’) (figura 1 - Ordine e simboli delle minchiate).

 

SONETTO

 

Estratto dall’originale autografo codice 1097 strozziano

 

Il duca Sforza, e Carlo imperatore (1)

Fanno a trionfi, il gallo e il viniziano;

E 'l re lo piglia, e dice Trionfiano (2);  

Lo Sforzo mette il primo, e fa il minore.

 

E dice: io gonfio; noi n' abbiam migliore;

Facciamo pur trionfare, e aspettiano (3):

E dà il dieci, e mette sotto mano;

E sconcia Carlo, e vuole il suo maggiore.

 

O pure, e piglia e gira, e cava il sole.

Il vinizian di poi volge il vent' otto,

E gira il mondo, perchè sgonfiar vuole.

 

Un dice, un dà, un gira, un mette sotto;

E valsi ognun di fatti e di parole:

Il giuoco undici e dodici è condotto.

 

                           L' imperio era al disotto;

Ed era come dar del capo al muro;

Ma Sforzo ave il lion che era sicuro.

                           Io vi prometto, e giuro,

E se volete pur che '1 ver vi dica,

Il giuoco si spacciò con gran fatica 5.

 

(1) Carlo Imperatore = Carlo V

(2) Trionfiano = trionfiamo (idiotismo del popolo fiorentino)

(3) aspettiano = aspettiamo (idiotismo del popolo fiorentino)

 Il senso generale è il seguente:

 

(Il Duca Sforza di Milano e l’Imperatore Carlo V giocano a trionfi contro il Re francese Francesco I e il Doge di Venezia. Subito lo Sforza gioca il Bagatto, ma ottiene un punteggio minimo. Una scelta per sviare gli avversari dando loro l’idea di vincere, dato che in mano aveva carte migliori. Subito dopo gioca il Carro (il dieci) sperando che l’Imperatore caschi nel tranello, volendo impossessarsi delle sue carte più alte. Carlo mette sul tavolo il Sole, il Veneziano il Capricorno e successivamente il Mondo, tentando con tale mossa di prendere tutte le carte giocate. L’Imperatore era in perdita e sembrava che non ci fosse niente da fare. Ma il Duca di Milano aveva in mano la carta del Leone, trionfo che avrebbe capovolto le sorti della partita. Così il gioco andò avanti, ma con grande fatica per entrambi gli alleati).

 

Come descritto in un nostro saggio sulle minchiate 6 il primo riferimento a questo gioco appare in una lettera inviata da Luigi Pulci il 23 agosto 1466 al giovane Lorenzo' de Medici. In essa il Pulci, fra le altre cose, scrive di non vedere l'ora di sfidarlo alle minchiate, a passadieci e a sbaraglino. Se si considera che il termine Minchiata proviene dal latino Mentula, il pene, a significare una cosa di poco conto, una bazzecola, una quisquiglia, cretinata o stupidaggine (in italiano e in numerosi dialetti le stupidaggini intese come cose senza valore e fra queste il gioco delle carte, vengono rese con termini derivati dai nomi dell’organo sessuale maschile), appare plausibile accomunare il significato di tarocco, vale a dire 'matto, folle' a quello di “minchiata” nel senso di stupidaggine, cosa di poco valore, così come troviamo espresso dal Berni. La variante Germini che venne utilizzata per indicare sempre i tarocchi in Toscana sembrerebbe derivare da Gemini, cioè il segno dei Gemelli che nell'elenco dei segni zodiacali risulta essere il più alto in quel gioco. 

 

Da Minchiata derivò il termine minchiattari - a volte minchiattarri e minchiantarri - a designare sia coloro che giocavano alle minchiate sia il carattere di minimo spessore di alcune persone 7.

 

Cosa significasse con precisione minchiattarri lo si comprende da un'ulteriore rima di Giovanni Petrei indirizzata al fratello Antonio, dove questi vengono identificati spregiativamente con cinque attributi inizianti tutti con la lettera B: “birri, bastardi, buoi, bugiardi e bari”. Vediamo come ciascun termine viene descritto nel Dizionario Etimologico Pianegiani:

 

Birro = ‘Sergente della corte, ed in seguito con senso dispregiativo Agente della pubblica forza’. Nel sonetto, birri sta a significare uomini violenti e prepotenti come venivano considerati gli agenti di Polizia.

Bastardo = ‘Depravato, gusto, corrotto’

Bue = ‘Uomo di ingegno tardo ed ottuso’.

Bugiardo = ‘Chi dice bugie; Falso, detto di cose la cui apparenza è ingannevole’

Baro = ‘Truffatore’

 

Insomma, un bell’esempio di uomini balordi, aderendo questi significati a quanto sopra descritto in riferimento al termine minchiata, il cui collegamento con il significato di tarocco = matto, nella sua accezione di stolto, appare più che coerente.

 

La Rima:

 

Fa', Antonio mio, che tu guadagni e impari,
     Perchè non giova imparar solamente;
     Chè oggidi non si prezza niente
     Un c'ha virtù, quando e' non ha danari.

Non usar con cotesti minchiattari,  
     Chè non fu mai la più ribalda gente;
     Cinque B hanno in lor continuamente:
     Birri, bastardi, buoi, bugiardi e bari.

Fátti al vederli il segno della croce,
     Come se tu vedessi Satanasso;
     Ch'ei son come 'l carbon, che tigne o cuoce.

Parla poco, odi molto, e guarda basso;

Al donar tardo, e al pigliar veloce;
Se no, sarai come di Siena il chiasso.

                             Le feste per tuo spasso
Studia, e va' cogli amici di raro,
Salvo se tu puoi ir col Sannazzaro;

                            Specchio lucido e chiaro,
Ch'alluma noi, e in sè tal virtù serra,
Che felice è chi può parlargli in terra 9.

  

Parafrasi

 

Antonio mio, fai in modo di guadagnare e imparare, poiché non è utile soltanto imparare, dato che ai nostri giorni non si stima nessun virtuoso che non abbia soldi.
Non far combutta con questi minchiattari poiché non vi è gente più farabutta di loro. Cinque B li caratterizzano costantemente: ‘Birri, bastardi, buoi, bugiardi e bari’.
Quando li vedi fatti il segno della Croce, come se tu vedessi Satana in persona; poiché essi sono come il carbone che sporca e scotta. Parla poco con loro, ascoltali molto e non guardarli fissamente.

Cerca di essere lento nel donare e veloce nel prendere, altrimenti su di te si faranno tante chiacchere come il chiasso che si ode a Siena [nei giorni di mercato]

Scegli bene le feste a cui desideri andare per divertirti e accompagnati raramente con gli amici, a meno che tu non possa andare con il Sannazzaro, anima sincera e limpida come uno specchio, che a noi serve di insegnamento e che possiede tali virtù da rendere felice chiunque possa parlare con lui in questo mondo.

 

Note

 

1. Poesie Italiane inedite di dugento autori dall'origine della lingua infino al secolo decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi, Volume III, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847, pp. 250-251.

2. Torquato Tasso, Il Romeo overo del Giuoco, Venezia, 1586.  Nostra edizione di riferimento: Cesare Guasti, I Dialoghi del Tasso, Vol. II, Firenze, Felice Le Monnier, 1858, pp. 31-32.

3. Si veda Il significato della parola Tarocco.

4. Si veda Rochi e Tarocchi.

5. Poesie Italiane inedite di dugento autoricit., p. 279.

6. Si veda I Tarocchi in Letteratura III.

7. Oltre al lemmo minchiata, derivarono da mentula le seguenti parole (Vocabolario della Crusca, Prima Edizione, 1612): 

Minchioneria

Lat. fabula: cosa di poco o di nessun valore
Lat. errata: errore grande, sproposito, corbelleria
Lat: jocus, facetia: motto, detto giocoso

Minchionare

Lat. illudere, irridere: burlarsi di chicchessia (si veda Del Minchionare

Minchionatura

L’atto di minchionare

Minchione - Minchionaccio 

Lat. bardus, iners: balordo, sciocco, perditempo (si veda Del Minchione)

9. Rime burlesche di eccellenti autori: raccolte, ordinate e postillate da Pietro Fanfani, Firenze, Felice Le Monnier, 1856, pp. 318-319.

 

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